Tecnica, visione di gioco e spirito di squadra. Queste alcune delle principali qualità che hanno caratterizzato la storia calcistica di Federico Barontini, ex centrocampista classe 1972, cresciuto nel vivaio della Fiorentina e poi protagonista per tante stagioni nei vari campionati professionistici e dilettantistici, vestendo le maglie di numerose compagini di Toscana e Umbria. “Appese le scarpette al chiodo” Federico, soprannominato “il barone”, ha cominciato la sua avventura da allenatore ottenendo buoni risultati ed arrivando in estate sulla panchina della Baldaccio Bruni Anghiari in Eccellenza. Nel suo percorso ha vissuto tante soddisfazioni, come ad esempio il successo da capitano nel campionato italiano allievi 1988-1989 con la Fiorentina, le panchine con la prima squadra viola, il primato nella classifica marcatori in Serie D con la Rondinella, le esperienze in Serie C ed alcuni campionati vinti. Barontini è figlio d’arte (suo papà Fabrizio è il giocatore con più presenze nella storia del Pisa) ed ha il calcio nel DNA. In carriera ha vestito le maglie di Ponsacco, Rondinella, Arezzo, Spezia, Sangimignano, Poggibonsi, Grosseto, Fucecchio, Massese, Pontedera, Città di Castello, Torgiano e San Secondo, “dando sempre del tu al pallone” e mettendo in evidenza non solo doti tecnico-tattiche, ma anche passione, dedizione e correttezza. Dal campo alla panchina il salto è stato naturale e anche qui si è già fatto apprezzare al San Secondo e al Selci, vivendo nel mezzo importanti esperienze come allenatore e responsabile nel settore giovanile a Città di Castello e Federico Giunti. Calcio, ma non solo, perché Federico è consulente assicurativo e giornalista iscritto all’albo. Una bella storia che assieme a lui ripercorreremo su TeverePost.
Come e quando è cominciata la tua avventura da calciatore?
È iniziata nella squadra del San Frediano a Settimo, frazione di Cascina, non distante da Pisa. Abitavamo lì e quando mio fratello maggiore Riccardo si allenava, io giocavo a pallone fuori dal recinto. Avevo 7 anni e non c’era una squadra per i ragazzi della mia età. Un giorno erano in pochi e il mister, Fulvio, mi chiese se volevo unirmi a loro. Non aspettavo altro e per entrare velocemente in campo passai sotto alla rete di recinzione. Quella fu la mia prima volta, poi l’anno successivo fu costituita una squadra per i bambini della mia età, così iniziò il mio percorso. Nel San Frediano a Settimo sono cresciuti calciatori come Nicola Martini e Alessandro Birindelli che poi hanno fatto una carriera importante.
Il calcio come questione di famiglia verrebbe da dire, dato che tuo papà Fabrizio ha giocato a ottimi livelli e che tra l’altro vanta tuttora il record di presenze nel Pisa di cui è stato capitano in Serie A nella stagione 1968-1969. Ha influito nella tua voglia di pallone?
Mio padre smise nell’anno in cui sono nato e non l’ho mai visto giocare, ma in casa si “respirava calcio” e mi ha trasmesso ovviamente la sua passione. Pur essendo sempre presente non si è però mai intromesso nelle mie scelte e mi ha sempre lasciato libero di decidere. Quando avevo 13 anni feci alcuni provini e poi passai alla Fiorentina. Ricordo che mi disse “vai dove vuoi, ma ricordati che dovrai diplomarti”. Fu l’unica volta in cui mi mise di fronte alle mie responsabilità a livello calcistico, facendomi capire l’importanza della scuola e io mantenni la promessa diplomandomi come ragioniere. In molti mi dicevano “ti auguro di fare la carriera di tuo padre”, lui invece è sempre stato discreto, direi anche critico e attento non solo per ciò che concerne l’aspetto calcistico, ma soprattutto a livello umano, trasmettendomi quei valori che mi hanno fatto crescere come persona e spingendomi a non accontentarmi. Per questo lo ringrazio e ringrazio la mia famiglia che è stata fondamentale in ogni passo della mia vita.
A 13 anni il passaggio alla Fiorentina. Cosa hai provato nell’iniziare l’avventura in maglia viola?
Tanta emozione e chiaramente tanta felicità perché avevo l’opportunità di giocare nel settore giovanile di una delle squadre più importanti d’Italia, con ragazzi molto bravi e in un campionato bello come quello dei giovanissimi nazionali. Ho avuto la fortuna di essere allenato in 5 dei miei 6 anni alla Fiorentina da Claudio Piccinetti, maestro di calcio e grande persona che mi ha insegnato tanto e che tra l’altro mi cambiò ruolo da esterno a trequartista. Poi nel mio ultimo anno in viola ad allenarmi fu nientemeno che Amarildo, campione del mondo con il Brasile.
In viola la vittoria più importante è stata quella del campionato italiano allievi che hai conquistato con la fascia da capitano. Che ricordi hai di quella cavalcata?
Fu una stagione memorabile in cui oltre al titolo nazionale vincemmo vari tornei di assoluto prestigio come ad esempio il “Nereo Rocco” a Coverciano e il “Beppe Viola” ad Arco di Trento. Il successo in campionato fu il coronamento di un percorso formidabile e la realizzazione di un sogno. Una squadra forte, in cui c’erano tra gli altri Betti in porta, Malusci, Antinori, Basciu e altri giocatori di livello. Io ero trequartista e capitano, un grande onore anche se in finale con il Napoli a Viterbo fui sostituito a 10 minuti dal termine e la fascia passò a Malusci, quindi nei festeggiamenti e nelle foto era sul suo braccio. Vincemmo 1-0 con il gol decisivo su punizione di Roberto Del Lama. Fu quella l’unica punizione che fui felice di non avere calciato. Il merito fu di noi giocatori, di mister Piccinetti e del preparatore atletico Bertelli che poi in carriera ha fatto strada lavorando ad esempio con Roma, Chelsea, Nazionale e Juventus. Ci sentiamo ancora e scherzando gli dico che ci deve ringraziare perché se ha fatto strada lo deve anche a quella squadra.
Non hai esordito nella prima squadra viola, ma sei andato tante volte in panchina e ti sei allenato spesso assieme ai campioni di quella Fiorentina. Quale è stata l’emozione più grande?
Allenarsi con quei giocatori è stato meraviglioso. Ero molto rispettoso e a posteriori direi fin troppo timido. Mi impegnavo tantissimo ogni giorno ed avevo la possibilità di ammirare da vicino il mio idolo Roby Baggio. Io giocavo trequartista come lui ed è sempre stato fonte di ispirazione. Nella stagione 1989-1990 quando in panchina c’era Bruno Giorgi arrivammo in finale di Coppa Uefa e io da giovane aggregato alla prima squadra venni convocato più volte. Vivevo con passione ogni istante anche se non scesi mai in campo. Ci fu però una volta in cui il cuore iniziò a battere a mille.
Quando?
Ritorno dei sedicesimi di finale di Coppa Uefa, in Francia, con il Sochaux, trasferta in cui tra l’altro dividevo la camera con Nappi. Pochi minuti dopo il fischio d’inizio Faccenda fu espulso e nella ripresa Iachini chiese di esser sostituito per un problema alla caviglia. Mister Giorgi si girò verso la panchina, dove ancora c’erano solo il portiere e quattro giocatori di movimento, e con lo sguardo si soffermò su di me e su Luboš Kubik. Il cuore iniziò a battermi a mille e pensavo di poter entrare, poi la scelta cadde sul giocatore cecoslovacco. Fu una grande emozione, la più intensa di tutta la mia vita sportiva ed anche una sorta di “sliding doors” della mia carriera perché se avessi esordito le cose magari sarebbero andate in un altro verso.
Come era Roberto Baggio visto da vicino?
Un fuoriclasse assoluto, con una tecnica sopraffina. Se non avesse avuto tanti problemi fisici sarebbe stato sul livello dei migliori di tutti i tempi. Anche così per me è il calciatore italiano più forte di sempre e a causa degli infortuni non abbiamo mai visto Baggio al top del suo potenziale. Lo seguivo con enorme ammirazione anche per le sue doti umane ed il suo modo di essere campione. Tra i numerosi aneddoti da raccontare ne scelgo due, se posso. Il primo era il Baggio di tutti i giorni che si fermava a fine allenamento per calciare in porta. Piazzava sulle fasce due compagni, Di Chiara e Salvatori, si faceva fare cross alti e tirava al volo. Per un giocatore normale è già difficile coordinarsi e colpire bene, lui invece trovava quasi sempre lo specchio e più o meno nel sessanta per cento dei casi, nonostante la presenza del portiere, segnava. Uno spettacolo.
E il secondo?
Nel ritorno degli ottavi di finale di Coppa Uefa a Kiev, con temperature gelide e il campo così ghiacciato che il giorno antecedente la partita non tolsero neanche i teloni per la rifinitura. Landucci per restare meglio in piedi affilò i tacchetti, Baggio giocò con le scarpe da calcetto e fece giocate pazzesche, magie sul ghiaccio.
E il Baggio fuori dal campo?
Essere in squadra con lui era una continua emozione e non riuscivo quasi a crederci. Baggio era disponibile, simpatico, un professionista vero e un modello da seguire anche per noi giovani. Una volta, di ritorno dalla trasferta a Sochaux, arrivammo all’aeroporto di Pisa alle 4 di notte e fuori dal pullman che ci aspettava c’era mia cugina, tifosa viola. Gli chiese se poteva prendere in braccio mia sorellina per una foto e lui nonostante la stanchezza lo fece con entusiasmo. Ricordo anche che in preparazione a Castel del Piano, mister Giorgi ci faceva fare 3 allenamenti al giorno e che quando ce lo comunicò Baggio sprofondò nella sedia. Due volte quando ero in panchina ho avuto la fortuna di vedere da vicino anche Maradona. Se vuoi ti racconto.
Certo!
Era sempre la stagione 1989-1990 e a gennaio nella stessa settimana affrontammo il Napoli in Coppa Italia e in campionato. Diego dopo la partita di Coppa, finita 1-1 con un gol suo e uno di Dunga, volò in Argentina e tornò solo la domenica mattina. Inizialmente si accomodò in panchina, ma poi entrò. Il suo riscaldamento fu incredibile, come quello del famoso video che si trova su internet: con le scarpette slacciate e palleggi da fenomeno quale era. Io ero estasiato e come me tutto il pubblico. Applausi a scena aperta.
Lasciata la Fiorentina approdasti al Ponsacco in Serie C2. Da lì iniziò la tua carriera da adulto.
Avevo 19 anni e giocare in C2 era una bella opportunità. Misi tutto me stesso in quella avventura ed in tutte quelle successive. Non avevo esordito in Serie A, ma potevo e volevo fare una bella carriera. Ho vinto alcuni campionati come quello del 1999-2000 in Serie D con il Poggibonsi. Una grande annata con la decisiva sfida vinta sul campo del Todi che non perdeva in casa da 2 anni e che ci permise di battere due squadre quotate come Aglianese e Grosseto. Nell’ultima gara ci seguirono tantissimi tifosi, poi a Poggibonsi entrammo con il pullman dentro lo stadio e iniziò la festa. In quella stagione feci anche una piccola “pazzia”.
Quale?
Dai 13 anni in poi avevo fatto tanti sacrifici, giocando e studiando, senza mai concedermi alcuna distrazione o momenti fuori dagli schemi, così all’età di 28 anni mi feci biondo. Agli allenamenti mister Indiani mi disse “ma che giocatore ho preso?”. Più divertente ancora fu il siparietto con mio padre e con mia nonna che non aveva più la vista dei giorni migliori. Lei mi chiese “ma ti sei fatto pelato?” e mio padre rispose con il sorriso “no, si è solo rinciucchito”.
Oltre che con il Poggibonsi quali altri successi hai ottenuto in carriera?
Nel 2004-2005 vinsi a Pontedera il campionato di Eccellenza Toscana con 6-7 turni di anticipo, al termine di una stagione dominata, nel 2006-2007 a Città di Castello la finale dei play off di Promozione contro il Lerchi dopo i supplementari in un Bernicchi con circa 2000 spettatori e poi il campionato di Prima Categoria con il San Secondo. In carriera ho però anche perso sfide decisive ai play off in Serie C2. Ad Arezzo nel 1996-1997 in semifinale con la Maceratese e poi due volte con lo Spezia nei due anni seguenti: nel 1997-1998 in finale a Pistoia proprio contro l’Arezzo e nel 1998-1999 in semifinale contro l’AlbinoLeffe per un gol subito al 95° nel match di ritorno.
Ci racconti il tuo passaggio in Umbria, terra che poi è diventata “casa tua”?
Mi chiamò il mio amico Luca Baldolini dicendomi che si stava accordando con il Città di Castello e poi nella telefonata subentro il ds Calagreti che mi propose il passaggio nella squadra tifernate. Sfida accettata, poi nel 2008 ho conosciuto Chiara che a luglio 2011 è diventata mia moglie e che, diciamo, deve convivere con questa mia passione per il calcio. La ringrazio perché è un supporto fondamentale.
Nella tua carriera da calciatore c’è anche un ritorno in campo dopo il primo ritiro. Come mai?
Avevo fatto allenatore giocatore e poi solo allenatore perché portare avanti entrambe le cose non è facile, poi però nel 2011-2012 Caldei mi chiamò chiedendomi se avevo intenzione di tornare in campo con il Città di Castello in Eccellenza e lo feci nonostante le 40 primavere. Nella partita di esordio vincemmo 1-0 con un mio gol su punizione e grazie anche a un mio salvataggio nel finale sulla linea. L’esperienza durò solo 6 mesi visto che poi mi infortunai, ma furono molto belli e mi gustai veramente ogni momento.
Come valuti la tua carriera da calciatore?
Sono felice del mio percorso e di aver trasformato la mia passione per il pallone in un lavoro. Non capita a tutti e mi reputo fortunato. Il calcio regala emozioni a tutti i livelli e lo spirito che ti accompagna è sempre quello: voglia di giocare e di dare il massimo per ottenere risultati assieme ai compagni. Vincere è sempre bello, in ogni categoria ed in ogni contesto. Per me ad esempio il titolo italiano conquistato con la squadra dei Giornalisti dell’Umbria ha lo stesso sapore di qualsiasi altra vittoria ottenuta in precedenza. Il calcio è una scuola di vita e mi ha insegnato tanto, nei momenti belli e in quelli difficili. Non potrei mai fare a meno dell’atmosfera che si respira in un campo sportivo.
L’ultima domanda riguarda la tua avventura in panchina. Le prime fasi e il tuo sogno nel cassetto.
Ho capito di voler allenare quando iniziai grazie a mister Indiani a vivere le partite con occhi diversi e così ho iniziato questo percorso, con i giovani e nelle prime squadre. Ho vissuto belle esperienze a San Secondo e al Selci Nardi con la vittoria del campionato e le salvezze in Promozione e ora la nuova e stimolante avventura ad Anghiari, purtroppo fermata dall’emergenza Coronavirus. Ho grandi motivazioni e tanta voglia di tornare a respirare calcio. Vivo la mia passione con umiltà, ma anche con determinazione e in futuro vorrei provare a conquistare da allenatore quello che mi è sfuggito da giocatore.