Pietro Betti fu un illustre medico che operò nel XIX secolo nella Toscana preunitaria. Si trovò in prima linea a combattere l’epidemia di colera che colpì il Granducato a partire dal 1835 e la descrisse dettagliatamente. Partecipò inoltre in modo molto attivo all’acceso dibattito sulle modalità di diffusione del morbo, in un’epoca in cui le conoscenze in merito erano limitate. Il Betti era dalla parte della ragione: sosteneva infatti che la malattia non si diffondesse attraverso la respirazione di miasmi ma per contagio. La correttezza di quest’ultima versione fu dimostrata in quegli stessi anni a Firenze con l’isolamento del vibrione del colera da parte di Filippo Pacini, a cui però non fu dato troppo credito. A chiudere il discorso a favore della teoria contagionista rispetto a quella miasmatica sarebbe stato poi Robert Koch pochi decenni più tardi.
Ma torniamo al Betti. Nelle sue Considerazioni sul colera asiatico che contristò la Toscana aveva descritto le epidemie che avevano colpito il Granducato dal 1835 al 1837 e poi nel 1849. A ciò furono aggiunti nel 1857-58 ulteriori volumi dedicati all’“invasione colerica” del 1855. Un capitolo dell’appendice riguarda il Compartimento di Arezzo, e gli ultimi paragrafi sono incentrati sulla “Delegazione di Sansepolcro”, cioè la Valtiberina. Che all’epoca era composta da otto centri, perché insieme ai sette comuni che ne fanno parte ancora oggi vi ricadeva anche il marchesato Monte Santa Maria. In totale la parte toscana della valle aveva 31.000 abitanti: un dato molto vicino a quello odierno, ma la redistribuzione tra le municipalità era molto più equilibrata, visto che il territorio di Sansepolcro contava poco meno di 8.000 abitanti, quello di Anghiari quasi 7.000, quello di Pieve Santo Stefano 3.700 e tutti gli altri avevano una popolazione compresa tra le due e le tremila persone. In totale, secondo i dati riportati dal Betti, il colera del 1855 colpì in Valtiberina 388 persone (l’1,25% del totale, al di sotto della media provinciale del 2,25%) e ne uccise 217 (con una mortalità del 56%, esattamente nella media aretina).
I primi casi della Valtiberina a Badia e Sestino
Il Betti riporta le testimonianze di medici e altre figure istituzionali in dettagliati rapporti, molti dei quali indirizzati a lui stesso in qualità di responsabile di tutti i lazzaretti del Granducato. Ne emerge, tra l’altro, il tentativo di ricostruire in modo minuzioso quella che oggi siamo abituati a chiamare catena dei contagi. Le relazioni riguardanti la Valtiberina riferiscono che i primissimi casi furono in montagna. La prima vittima fu un Giuseppe Capucci di Badia Tedalda. Si tratta di un caso di rientro dall’estero: il Capucci era stato infatti ad una fiera a Sant’Angelo in Vado, nello Stato Pontificio, dove il colera già imperversava. Tornato il 25 giugno 1855, morì la sera del giorno dopo. Il 27 dello stesso mese si registrò il primo caso a Sestino. Nei due comuni montani si ebbero in totale 52 contagiati e 33 morti.
L’arrivo del morbo a Sansepolcro
Secondo il Betti fu però per altre vie che il colera giunse a Sansepolcro. Il primo caso fu un chierico diciottenne che si ammalò la sera del 24 luglio e guarì di lì a poco. Negli stessi giorni pare che si fosse ammalata anche una donna che viveva poco lontano, Massima Silei, arrivata di recente da Firenze, dove l’epidemia era già ben diffusa. Dal 3 agosto furono colpite da colera e ne morirono la proprietaria della casa dove abitava la Silei, sua sorella e ancora altre due donne, una che viveva nello stesso edificio e l’altra che vi si era recata. In pochi giorni si registrarono 28 casi, più della metà nella stessa zona. Il Betti ipotizza che il paziente zero debba essere Massima Silei, che avrebbe importato il morbo da Firenze, e che anche il chierico, sebbene forse ammalatosi poco prima, potrebbe essere stato contagiato da lei. Riporta però anche la testimonianza dei medici di Sansepolcro Niccolò e Carlo Millanta, a beneficio di “chi ama conoscere in tutta la sua latitudine lo stato della controversia” sulla propagazione del colera. I Millanta infatti ritengono che l’ipotesi del contagio sia da mettere in dubbio considerando che in due mesi solo due serventi fra le 18 persone che lavorarono al lazzaretto si ammalarono, nonostante comportamenti particolarmente rischiosi:
“Stavano presso i malati continuamente senza alcuna precauzione frizionandoli, pulendoli, mutandoli di letto, con abbracciarli nudi e riporli in altro letto. Talvolta li ho sorpresi dormendo colla testa appoggiata sullo stesso capezzale de’ colerosi, e vi fu una ragazza servente, che per ricercare un orecchino caduto disgraziatamente nel luogo comodo a parte ove erano gettate le materie dei colerosi ne alzò il chiudente, e avvicinando la faccia alla buca e rumando con una zappa per molto tempo quelle putride materie ricuperò l’oggetto perduto. Non ostante simili imprudenze ella non ebbe alcuno sconcerto”.
A Sansepolcro i contagi furono 157, i morti 98. Dettagliate statistiche riguardano il locale lazzaretto, dove furono curati 92 malati, 90 lì trasportati dalla Compagnia di Misericordia più le due serventi già citate. Morirono in 64, di cui tre su cinque sotto i 20 anni, 14 su 28 dai 20 ai 40 anni, 25 su 33 dai 40 ai 60 anni, 19 su 23 sopra i 60 anni e altre tre persone di cui non è specificata l’età, catalogate tra i “casi eccezionali” (due morti improvvise durante la convalescenza e una febbre puerperale).
La catena dei contagi a Monterchi
La situazione di Monterchi è riferita al Betti in un resoconto a firma Augusto Branchini. Tutto cominciò il 24 agosto alla fiera di San Bartolomeo a Città di Castello, dove la malattia era diffusa. Vi si recò un tale Luca Andreini di Pistrino, che nel pomeriggio “si pose a giacere in un letto che pochi dì innanzi aveva servito ad un coleroso”. La sera tornò a casa e il giorno seguente morì, come due donne che lo avevano assistito. A vestire e seppellire una delle donne fu chiamata Teresa Barboni, moglie del becchino di Monterchi, che operò “senza alcuna igienica precauzione”. Il giorno dopo, richiamata alla stessa casa per lo stesso motivo, si sentì male strada facendo e morì, e fu il primo caso monterchiese. Fu poi la volta di Bernardino Mantini, che diversi giorni dopo si recò a Pistrino, a casa Andreini. e dietro “buona retribuzione” si incaricò di gettare via i letti dove erano morti i malati. Non aveva ancora finito il lavoro che si sentì male e “i contadini spaventati” lo trasportarono con un carro al castello di Citerna. “Non trovando alcuno, barbaramente lasciarono l’infermo sul carro” e “l’infelice Mantini fu costretto rimanersi all’aria aperta e privo di qualunque soccorso” per tutta la notte, dopodiché ricevette cure che non lo salvarono dalla morte. Il giorno seguente morì anche la moglie, ma a detta del Branchini per “tubercolosi polmonare”. I figli Giuseppe ed Eleonora furono messi in guardia dal parroco di Monterchi di non andare a riprendere “i pochi cenci che potea avere avuti indosso il loro padre”, ricevendo anche la promessa di un indennizzo. Invece non rispettarono l’invito e andarono a recuperare i vestiti di Bernardino. Dopo due giorni Eleonora si sentì male in chiesa, e chi la riportò a casa trovò il fratello già ammalato. Morirono entrambi.
A questo punto “furono raddoppiate le precauzioni che fino dal primo manifestarsi del male nei luoghi vicini in Monterchi solermente si erano messe in pratica” e nel paese non si ebbero altri casi. Per quanto riguarda le zone limitrofe, un altro morto si ebbe alle Ville e due alla Padonchia: questi ultimi furono un Pancioni che dopo aver portato ad Arezzo dei vitelli aveva pernottato a Palazzo del Pero, dove il colera era molto diffuso; e il pigionale Iacopo Biagetti, di 68 anni, affetto da diarrea “che avea voluto curare col bevere forti dosi di rhum, ed altri liquori”.
Il colera a Pieve Santo Stefano già devastata dall’alluvione
Il 1855 fu per Pieve Santo Stefano un anno particolarmente sventurato. A febbraio fu inondata da un’alluvione e rimase a lungo sommersa dalle acque e dal fango, con gli abitanti costretti a vivere sfollati in condizioni di fortuna, in stalle o cappelle, o ammassati nei villaggi limitrofi. Ne dà conto il medico condotto Giovanni Lodovici, che aveva accettato l’incarico a Pieve una decina di anni prima per il “bisogno d’un aspetto di cielo più vergine, bisogno di pace” ma che poi nell’alluvione aveva “perduto assolutamente tutto (…) i miei libri, i miei scartafacci, e perfin la famiglia”, rifugiatasi a Firenze. Il Lodovici si dilunga nel descrivere le difficilissime condizioni in cui si trovava la popolazione e i disagi del medico stesso, che “solo, senza aiuto di sorta, a piedi sempre” percorreva “assai miglia ora fra i ciottoli e il fango della campagna, ora sul pantano livido, glutinoso, pestifero dell’alluvione”, dove centinaia di persone erano impegnate a cercare di ripulire “l’abominanda sordizie” lasciata dall’inondazione. E uscendo dal paese il dottore si ritrovava a “far gran prova d’equilibrio” per attraversare il Tevere o l’Ancione su travi o scale a pioli. La situazione igienica in quel drammatico periodo era critica, e il Lodovici se ne sfoga in modo colorito: “Sia lode al vero, puzzavamo tutti”, scrive, prima di passare ad elogiare “lo spettacolo di belle virtù domestiche e cittadine” che nonostante tutto dimostrò la popolazione:
“Non qui pregiudizi sospettosi, feroci, che pure disonorarono la vantata cultura di molte città. Anziché il sospetto, inverso il medico era cresciuta l’intimità e in atti e in parole un ringraziarlo dell’essersi rimasto fra loro nel maggior uopo. L’egoismo, che tiranneggia le menti ne’ mortali pericoli, non si sapea dove fosse. Appena s’annunziava un malato, i parenti e gli amici non solo, ma i conoscenti, i vicini offrivano la loro assistenza”.
Arrivando a parlare dei casi di colera, il Lodovici racconta che la prima a morire fu il 10 agosto la sorella del mugnaio, Caterina Manenti. Si dice “ben certo che la Manenti non aveva avuto contatto con persona venuta da luogo infetto. Bensì tutte o moltissime condizioni favorenti il colera, non escluso il cattivo vitto, furono incontrate da quella”. Qualche giorno dopo si ammalò un Belvederi “dedito al vino ai liquori”, che era rientrato da Città di Castello, come detto già colpita dal colera. In entrambi i casi il medico, pur riconoscendo i sintomi, parlò di gastroenterite per non allarmare la popolazione già provata dall’alluvione. Il terzo contagio, e il primo dichiarato ufficialmente, fu quello di una Cordovani che era rientrata a Pieve da Sansepolcro ed era stata alloggiata al Campo alla Badia, dove morì come una Elisabetta Del Picchio. Il resoconto del medico dettaglia poi casi che si manifestarono nelle settimane e nei mesi successivi in villaggi e casolari dei dintorni. A novembre risale un episodio verificatosi “nell’altissima ripa del Tevere fra Formole e la Pieve (in Chieli)”: un bracciante di nome Leprai si ammala e viene soccorso nella “orrenda capanna colonica” di un Metozzi. Quest’ultimo viene contagiato a sua volta e in punto di morte pronuncia un eroico «Non me ne pento!». A Pieve si contarono alla fine 74 contagiati e 36 morti, tra cui uno il 6 dicembre che fu l’ultimo registrato in tutta la valle.
Quanto avvenuto nelle altre municipalità della Delegazione di Sansepolcro non è descritto nel dettaglio ma solo riassunto in forma numerica sulla base dei dati ufficiali. Si sa quindi che ad Anghiari ci furono 76 contagiati e 34 morti, a Caprese dieci contagiati e tre morti, a Monte Santa Maria 14 contagiati e otto morti.
“Boccettine sospette da far bere ai pazienti”
L’articolo rende in estrema sintesi ciò che riporta il professor Pietro Betti sull’epidemia in Valtiberina. Per chi è interessato ad ulteriori dettagli riguardo a quanto avvenuto nel nostro territorio, il riferimento è alle pagine 660-689 della prima parte della Seconda appendice alle Considerazioni sul colera asiatico. Tutti i volumi delle stesse Considerazioni sono comunque spunto di approfondimento in molteplici direzioni: ad esempio per quanto riguarda i dibattiti in corso all’epoca su modalità di diffusione del colera (a cui abbiamo appena accennato), precauzioni igieniche, terapie, norme adottate o proposte in merito a quarantene, divieti di assembramento, isolamento dei malati e dei loro contatti; ancora, non mancano testimonianze sull’approccio delle persone alla malattia, alle restrizioni, alle cure.
Chiudiamo con un aneddoto riferito alla prima epidemia (1834-35), quando Pietro Betti era direttore sanitario del porto di Livorno. Lo riportano Duccio, Paolo e Simone Vanni nell’articolo del dicembre 2015 Pietro Betti e Maurizio Bufalini: lo scontro tra due grandi Georgofili:
“Là il Betti rischiò addirittura la vita perché, odiato dalla popolazione, un giorno fu assalito da un gruppo di facinorosi che al grido: «Ecco il boia, ammazza, ammazza!» lo volevano linciaree sarebbe andata per il peggio se non fossero intervenuti dei gendarmi a cavallo. Il popolino infatti era convinto che i medici con la «loro medicina, certe boccettine sospette da far bere ai pazienti», fossero i dispensatori del male”.