Non so se avete presente il racconto di Ennio Flaiano: “Un Marziano a Roma” nel quale l’atterraggio di un alieno nella capitale provoca dapprima grande stupore ed interesse che però si trasformano presto in indifferenza; Enzo Carella romano e Franco Fanigliulo di La Spezia, sono i due alieni sbarcati al Festival di Sanremo e rapidamente dimenticati Eppure rappresentano le due facce di come avrebbe potuto evolversi la musica di casa nostra se le cose per entrambi fossero andate in modo diverso. Al modo di fare musica di entrambi si sono interessati personaggi come Lucio Battisti per Carella, Vasco Rossi e Zucchero per Fanigliulo. Entrambi riservati nella vita privata ma con un lato esibizionista fatto di sensualità comica nel primo e di smaccata teatralità nel secondo. Il Festival di Sanremo del 1979 era alla ricerca di personaggi particolari sperando di continuare il trend dell’edizione precedente nella quale si erano messi in luce Rino Gaetano e Anna Oxa e pensava di averli trovati nel romano e nello spezzino che presentavano canzoni sicuramente originali anche se poi ad aggiudicarsi la vittoria in quell’ edizione sarà un brano supermelodico: “Amare” cantato da Mino Vergnaghi . Ma che strada avevano percorso i due per approdare alla rassegna sanremese?
Enzo Carella: il gagà stralunato
L’esordio discografico di Enzo Carella, è fulminante; scoperto dal manager Alfonso Bettini in una delle tante cantine di Roma dove Enzo suonava cover dei suoi idoli, Beatles Rolling Stones, Bob Dylan Genesis, Led Zeppelin (è un ottimo chitarrista e lo dimostrerà in alcuni suoi brani) viene dal produttore messo in contatto con un giovane paroliere, Pasquale Panella col quale Enzo farà coppia per tutta la sua attività discografica. Dalla collaborazione fra i due nel 1976 nasce un brano “Fosse Vero” che è un autentico schiaffo all’imperante mieloso “love-core” (definizione di Caparezza) di gruppi e solisti dell’epoca come Il Giardino dei Semplici, gli Alunni del Sole, Cugini di Campagna, Juli & Julie, Beans, Collage, Franco Simone, Riccardo Fogli (mi fermo qui perché ce ne sono troppi). Una voce ipnotica quanto monocorde che recitava più che cantare un testo nel quale ogni frase era un bozzetto apparentemente slegato da quelli precedenti e successivi ma con un senso generale per quanto all’apparenza criptico, immessi in un tappeto musicale .orecchiabile quanto ipertecnico fatto di melodia serpentina, ritmo funk e armonie jazz con un arrangiamento di classe. La canzone, così come successivamente tutte quelle dei suoi primi due album, nasce dall’improvvisazione in sala delle sue melodie e dei testi di Panella. I musicisti Fabio Pignatelli (basso), Agostino Marangolo (batteria) e Maurizio Guarini (tastiere) sono praticamente i Goblin, quelli di “Profondo Rosso”. In definitiva un mix perfetto di melodia, ritmo e torbida sensualità. Il disco è prodotto da Marco Luberti, all’epoca paroliere di Riccardo Cocciante, per la IT, l’etichetta discografica “giovane” della RCA .dedita al lancio di nuovi personaggi, creata da Vincenzo Micocci, quello che Alberto Fortis avrebbe voluto “ammazzare” nella canzone “Milano e Vincenzo”, ma scopritore di talenti come Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Rino Gaetano.
La prima apparizione in video avviene nel marzo dell’anno successivo a Discoring, condotto da Gianni Boncompagni, durante la quale Carella, nell’intervista che precede l’esecuzione del brano, forse intimidito da una situazione assurda creata dal presentatore, dimostra tutto il proprio imbarazzo.
Faceva da contraltare all’atmosfera sensuale del pezzo il modo dimesso di presentarsi del cantante, per tale ragione la casa discografica pensò di legare la sua immagine all’argomento di quella canzone e via via delle altre che seguiranno a ruota con l’uscita del suo primo album “Vocazione”, fra le quali spicca “Malamore/l’Anima Pagliacciona” che uscito come secondo singolo,ottiene un certo successo radiofonico e commerciale. I discografici, ispirandosi ai testi di Panella i quali dipingono spesso donne-pantera fatali e fameliche alle quali il povero Carella non riesce a sottrarsi, trasformano Enzo in una sorta di stralunato gagà con baffo sempre all’erta, costantemente vittima del fascino femminile e spesso in strambe situazioni che, almeno su disco, affronta con ironia, apparente faccia tosta e una noncuranza tutta romana; ma il personaggio non buca lo schermo perché dal vivo non suscita le sensazioni provate su vinile. Però che brani, che arrangiamenti! Così avanti da stregare uno come Lucio Battisti che dopo avere ascoltato il primo album di Enzo, darà ai suoi brani una svolta musicale funk-pop come si può constatare ascoltando tutti i suoi dischi da lì in poi. In seguito, il reatino finirà anche per rubare a Carella il suo paroliere di fiducia, anche se sinceramente, col senno di poi, il connubio musicista- autore testi ha funzionato meglio con Enzo che con Lucio. Carella è a sua volta influenzato da Battisti soprattutto nel modo di cantare pur non avendo la stessa estensione vocale , ma ha abbastanza talento per evitare scopiazzature e metterci del suo. Come Lucio, Enzo è musicalmente onnivoro e sa rendere le sue canzoni un qualcosa di completamente nuovo.
Una svagata ”anima pagliacciona” a Sanremo
Arriviamo così al fatidico 1979 quando Carella viene catapultato sul palcoscenico di Sanremo insieme a 4 ballerine-sandwich che, tanto perché il pubblico in sala capisca meglio, portano scritte sui cartelloni che indossano le parole del testo; lui si agita sul palco con aria svagata e decisamente comica, non si capisce quanto voluta ma “Barbara”, il pezzo che presenta, è il brano funk perfetto al punto che le giurie lo premiano facendolo arrivare al secondo posto in classifica finale. È la consacrazione definitiva? No. perché il 45 giri non scalda le classifiche di vendita così come succede al conseguente album “Barbara e altri Carella” che contiene oltre ad inediti anche riproposizione di brani già presenti nel primo 33 giri, (Malamore), e l’inserimento di precedenti singoli :”Amara”, “Carmè” usciti nel 1978.
Il problema di Carella è che il pubblico non è pronto ad immedesimarsi nel personaggio, lui, lasciato libero di esprimersi, come si può ancora costatare in qualche raro filmato, fa ancor di più emergere la sua parte autoironica e a volte pasticciona. basta vederlo in azione nel video “fatto in casa” di “Foto”,pezzo contenuto nel suo secondo album, oppure nella clip della trasmissione tv Mister Fantasy del 1981 dove Carlo Massarini lo dipinge come “pazzo vestito di rosa”. In quest’ultima occasione presenta il suo terzo album “Sfinge” inciso direttamente per la RCA con musicisti di studio e la produzione di Elio D’Anna (ex Showmen e Osanna) I suoni sono se possibile ancor più ricercati rispetto ai primi due album e lui “svisa” meravigliosamente alla chitarra in pezzi come “Riflessione Finale”.Si sente ancor più il respiro internazionale degli arrangiamenti che si rifanno direttamente ai suoni degli Steely Dan come nel brano “Stai Molto Attenta”. Il pubblico però chiede altro tipo di musica così Enzo viene progressivamente emarginato e a poco servono i ritorni nel 1992 con Carella De Carellis, del 1995 con Se Non Cantassi Non Sarei Nessuno (l’Odissea di Panella e Carella) e l’ultima nel 2007 Ahoh Ye Nànà, sempre trascinato in studio dal paroliere che non lo ha mai abbandonato. Tra le sue collaborazioni da ricordare quella del 1993 con il gruppo “Tour in Città” composto oltre che da lui da Samuele Bersani, Bungaro,,Angela Baraldi, Tosca e altri che interpretano “Aida93” omaggio a Rino Gaetano.
Ma in fondo Enzo se ne frega di inseguire il successo a tutti i costi e poi la sua musica è troppo ricercata per i gusti del grande pubblico, a lui piace la vita che fa, bere, suonare la chitarra, dipingere, farsi i fatti suoi più o meno allegramente anche se a volte affiora il rancore per un mondo, quello discografico, che lo ha scaricato. A un certo punto viene addirittura arrestato per aver dimenticato aperta l’acqua d’irrigazione delle sue piantine di marijuana. Sogna di realizzare un nuovo disco, ne parla spesso, con Panella, sono sempre amici e il connubio si può ricostituire senza problemi, ma non fa in tempo: il 21 febbraio 2017 muore per un arresto cardiaco all’età di 65 anni.
Oggi c’è una vera e propria riscoperta del personaggio e soprattutto della sua musica che ha influenzato gran parte della scena romana dell’italian pop contemporaneo dai Tiromancino a Tommaso Paradiso, passando per Calcutta, I Cani, Colapesce, che ha inciso la una cover di Malamore. Riccardo Sinigaglia; ex Tiromancino, ha realizzato pure lui la sua versione di Malamore e l’ha inserita nella colonna sonora del film Lo Spietato del 2019.
Franco Fanigliulo: il poeta contadino stralunato
L’esordio musicale in video di (Gian) Franco Fanigliulo avviene…al cinema! E sotto falso nome. È infatti il cantante dell’orchestra Romeo e Los Gringos che nel film di Giuseppe Bertolucci, protagonista Roberto Benigni, “Berlinguer ti Voglio Bene” del 1977, canta un improbabile tango nella scena del ballo. Anche se appare in poche inquadrature Franco riesce a mettere in mostra tutta la propria teatralità. Il brano che canta nel film faceva parte del suo primo album “Mi Ero Scordato di Me”, uscito qualche mese dopo per lì etichetta Ascolto di Caterina Caselli alla quale Franco era stato “raccomandato” dall’ex bassista dell’Equipe 84 Franco Ceccarelli che lo aveva scoperto durante una serata nella quale il nostro si esibiva col suo gruppo.
Franco non era più “di primo pelo” al suo esordio musicale, aveva già 33 anni e alle spalle mille mestieri. Lui, figlio di un marconista della marina mercantile e di una pianista, si era imbarcato giovanissimo come marittimo per poi divenire via via taglialegna, garzone di bottega, rappresentante di prodotti di bellezza ed infine agricoltore nell’entroterra ligure componendo nel contempo musica per hobby. Non deve essere stato un periodo facile quello passato sulle navi dal momento che i marinai imbarcati con lui, forse esasperati dal suo continuo suonare, pare gli avessero ripetutamente nascosto, e in un caso sfasciato, la chitarra che portava sempre con sé, come documentato in un vecchio video della RAI.
Per quel che riguarda la sua prima prova possiamo dire che si tratta di un album contenente tutti brani scritti dal solo Fanigliulo, in cui la sua vena musicale già emerge per la delicatezza dei temi trattati e per l’incisività delle sue interpretazioni. Gli arrangiamenti e la produzione sono di Franco Ceccarelli. Pur riscuotendo un unanime consenso dei critici (“disco non banale, non ovvio, usa la musica con ironia”, “fa intuire possibilità e qualità poetiche”, “le prossime prove dovrebbero confermarci la scoperta di un talento“), non riscuote un analogo successo da parte del pubblico e passa quasi inosservato..
Un poeta contadino “buffone” a Sanremo
Comunque nel 1979 si presenta per lui l’occasione di partecipare al Festival di Sanremo. La canzone che porta alla manifestazione, “A me mi Piace Vivere alla Grande” è facile ed orecchiabile. È stata scritta, oltre che dallo stesso Fanigliulo, anche dal suo amico Riccardo Borghetti ma, alla stesura definitiva del brano partecipano anche due indiscusse star della canzone: Daniele Pace e Oscar Avogadro. Il brano crea anche un piccolo scandalo in quanto alcune parole incappano nella censura allora imperante e “foglie di cocaina, voglio sentirmi male” diventa un più innocuo “bagni di candeggina, voglio sentirmi uguale”. Sopravvive invece la frase: “Adesso che Gesù ha un clan di menestrelli, che parte dai blue jeans e arriva a Zeffirelli”, con specifica allusione ad una marca di pantaloni e al film religioso del regista e anche tutto il resto è ironico e dissacrante, dal nonsense polemico e aggressivo che il sottofondo quasi operistico e l’interpretazione sarcastica di Franco tendono ad accentuare. A Sanremo e soprattutto nei successivi passaggi televisivi lui mette ancor più in mostra le proprie caratteristiche, fregandosene in alcuni casi del playback a vantaggio della gestualità.
Il personaggio Fanigliulo riscuote anche un notevole successo personale. si piazza al sesto posto nella classifica finale del festival. Molti giornali lo definiscono il “vincitore morale” di Sanremo.Un corrispondente scrive: “L’unica ragione per non dimenticare questa edizione del Festival è “A me mi piace vivere alla grande”, un pezzo scritto e cantato da Franco Fanigliulo, un bizzarro poeta-filosofo-contadino che davvero vive come gli piace”. Colpiscono il pubblico la sua notevole dote di comunicativa, la sua mimica, le sue espressioni. Colpisce la sua gestualità e, forse, Fanigliulo è il primo esponente di quel teatro-canzone per il quale non bastano i tre minuti di un brano per esprimere tutte le sue potenzialità e soprattutto è un artista, nel senso più completo della parola, che non deve solo essere ascoltato, ma anche visto, e per il quale i freddi solchi di un disco non sono sufficienti perché riesca ad esprimere tutto quello che vorrebbe dirci.
Scriverà Gianni Lucini nel 2002, poco dopo la morte di Giorgio Gaber: “Gaber non lascia alcun erede artistico, perché nessuno gli assomiglia. Qualche anno fa c’erano un paio di cantautori capaci di coniugare ironia, poesia e capacità di vivere gli umori dei propri tempi: si chiamavano Rino Gaetano e Franco Fanigliulo, ma sono scomparsi prima di lui”.
Sfruttando l’occasione di Sanremo esce subito dopo anche il secondo album di Franco: “Io e Me”, forse il suo disco più completo e rappresentativo. Diranno di lui i critici musicali a proposito di questa prova: “Agisce al limite della musica leggera, ai bordi del cantautorato, agli angoli del teatro, personaggio legato più all’immagine teatral-cabarettistica che a quella tipicamente musicale, figura da vedere più che da ascoltare”, oppure “interprete bizzarro e provocatoriamente narcisista, tra il cabaret e la canzone d’autore”.
Prodotto da Giampiero Reverberi, collabora ai testi Riccardo Borghetti. Disco troppo difficile per il grande pubblico e, nonostante il credito di popolarità, ottiene un limitato riscontro di vendite. In compenso nelle rara apparizioni in trasmissioni tv lui dimostra tutta la propria verve comunicativa catturando l’attenzione del pubblico e l’ammirazione da parte degli addetti ai lavori come dimostrano ad esempio Valter Chiari e Augusto Martelli nella trasmissione “Una Valigia Tutta Blu” in onda sulla RAI quello stesso anno, dove “Fani” (così chiamato confidenzialmente dagli amici) interpreta il brano “Buffone” quasi un manifesto autobiografico del proprio pensiero “filosofico” oltre che della propria capacità istrionica.
Passa poco più di un anno e nell’estate del 1980 esce il suo terzo album “Ratatam Pum Pum” da cui viene tratto il singolo omonimo. In questo disco suona anche Mauro Pagani e tra i cori compare Loredana Bertè. Col brano “Ratatam pum pum” partecipa anche al Cantagiro. E’ un disco meno intimista, più rockeggiante, ma emerge sempre la figura ironica di Franco. Grande successo di critica e, come sempre, limitato successo di vendite.
Devono passare altri due anni prima di avere notizia di una sua nuova incisione, un 45 giri che contiene i brani “La Libertè” e “Con Tenerezza” due canzoni orecchiabili molto ben accolte dai critici ma che passano sotto assoluto silenzio anche perché l’etichetta Ascolto è in smobilitazione e viene fatta poca promozione al disco, A nulla vale il passaggio alla Numero uno l’etichetta di Lucio Battisti per la quale nel 1983 Franco incide un q disc dal titolo “Benvenuti Nella Musica” con quattro brani poi rientra nell’anonimato. Per quasi cinque anni rimane ai margini del mondo musicale anche perché non ha mai dato valore al denaro e al successo, gli impegni, le scadenze non sono mai state cose per lui. Si ritira nel suo podere nei pressi della Spezia tra cani e cavalli, tra gatti e pecore. Ne riemerge solo con un paio di singoli: “L’acqua minerale” nel 1987 e “Napoli che fa?” nel 1988 pubblicati entrambi per l’etichetta “Bollicine” di Vasco Rossi. E Vasco Rossi, così come Zucchero, entra a far parte della sua vita. In una intervista Zucchero ha ricordato i suoi rapporti di quei tempi con Vascco Rossi e con “Fani” “Tanti anni fa. Io avevo la mia ex, che poi è diventata mia moglie, e Vasco la sua ragazza. Io andavo a Zocca e lui veniva a Carrara o Forte dei Marmi. Andavamo per trattorie. C’era anche il povero Franco Fanigliulo” E a suffragare questo rapporto nell’album “Blue’s” di Zucchero uscito nel 1988 c’è un ringraziamento a Franco per il suo determinante contributo alla musica e ai testi. Grazie ai suoi amici Fanigliulo torna in sala d’incisione nello studio di Vasco a Modena e inizia la registrazione di un nuovo album con la collaborazione di Gaetano Curreri, del compianto Massimo Riva e della Steve Rogers Band.
La poliedricità di Fanigliulo emerge anche da un’altra sua produzione, un libro di fiabe per bambini in fase di scrittura che doveva essere pubblicato dalla Mondadori. Ma d’improvviso un’emorragia cerebrale lo colpisce mentre si trova a casa sua, nei pressi di La Spezia. Una corsa all’ospedale, un paio di giorni di ricovero in condizioni disperate e poi, improvvisa la fine, il 12 gennaio del 1989. Beffardamente Franco aveva predetto il modo nel quale sarebbe morto in un passaggio del suo brano sanremese dove canta:”Ho un nano nel cervello/ Un ictus cerebrale”.
Il suo ultimo disco, grazie a Vasco Rossi e a tutti i suoi amici che hanno contribuito alla realizzazione, esce egualmente, circa un anno dopo la sua morte, incompleto, Si sarebbe dovuto chiamare “Sudo Ma Godo” ma il titolo definitivo è “Goodbye Mai”.
Fanigliulo viene dimenticato dai più per circa quindici anni. Solo recentemente, per merito dei suoi amici e di tutti quelli che ancora lo ricordano con affetto, è riemerso un interesse per questo geniale artista della canzone italiana. Nel 2012 l’amministrazione comunale di La Spezia gli ha intitolato una strada a Pegazzano dove aveva vissuto Infine è stata inaugurato, a Prati di Vezzano, dove aveva la sua fattoria, un monumento a lui dedicato realizzato dallo scultore Giuliano Tomaino.