“Emergenza attuale figlia dei tagli alla sanità degli anni scorsi”

Nella seconda puntata dell'intervista di TeverePost a Lorenzo Vecchi, infermiere di Sansepolcro in prima linea a Milano, si parla di questioni organizzative e di speranze per il futuro

Lorenzo Vecchi con abbigliamento protettivo

Lorenzo Vecchi con l'abbigliamento protettivo previsto in terapia intensiva, comprensivo di casco in plexiglas utilizzato durante le manovre invasive.

Nella prima parte Lorenzo ha raccontato a TeverePost l’esperienza che sta vivendo a Milano durante la crisi Covid. Questa seconda e ultima parte della conversazione è invece dedicata maggiormente ad aspetti organizzativi e politici, e si conclude con condivisibili auspici per il dopo-emergenza.

Qual è la tua opinione sulla sanità lombarda?

Io ho vissuto e lavorato in Toscana dove, devo dire – si parla di dieci anni fa – c’era un bel sistema sanitario e un bell’apparato territoriale, che è la cosa che in questo momento ha ceduto di più. Si parla di “eccellenza lombarda”, e non si può negare che sia un sistema sanitario forte fatto di grandi professionisti. Purtroppo spesso e volentieri vengono alla ribalta solo i casi di malasanità, mentre la buona sanità non fa notizia, risulterebbe noiosa. Con l’emergenza però è venuto a galla tutto il sommerso che c’era prima. Lo voglio dire nella maniera meno critica possibile, a cavallo tra il professionista sanitario e il cittadino, ruoli nei quali mi sono sempre trovato bene con la sanità lombarda. Ma devo dire come infermiere che, soprattutto dal 2012 in poi quando è arrivata l’onda dell’austerity dopo le crisi del 2008, si è sentito fortemente l’ulteriore giro di vite che c’è stato, l’ulteriore taglio nel comparto sanità. Che è quello più a perdere, ma allo stesso tempo è anche quello che fa girare più soldi. Più a perdere perché è gratuito, perché ci sono gli anziani e non solo. È difficile capire da non sanitario quanto c’è da fare tutti i giorni per rendere dignitosa la vita di persone che hanno malattie non solo oncologiche o cardiovascolari letali, ma anche condizioni morbose croniche che vanno avanti per anni. Persone che dipendono letteralmente dallo Stato. In Paesi dove non è così vediamo succedere quello che succede a New York: hanno finito i posti nelle fosse comuni. Ed è già agghiacciante il fatto che ci siano le fosse comuni, figuriamoci il fatto che siano piene!

I tagli li abbiamo sentiti anche in Toscana, e ne abbiamo di recente discusso con il professor Gavino Maciocco. In Lombardia com’è andata?

La Regione Lombardia – non è una polemica ma un dato di fatto – ha esercitato una serie di tagli, una forte riduzione dei posti letto. Doveva diventare un’occasione per incrementare il territorio ma è stata un’occasione mancata, perché il territorio è stato lasciato andare. Non mi stupisce che ci siano politici che hanno detto: “Oramai dal medico di famiglia chi ci va più?”. È lì che si doveva lavorare, medici di famiglia, cure palliative, cure psichiatriche a domicilio, tutto il comparto extra-ospedaliero. L’ospedale dovrebbe essere l’extrema ratio, e torniamo di nuovo alla questione delle infezioni nosocomiali. Che ci sono non perché siamo tutti cialtroni, ma perché non ci sono abbastanza posti letto, non c’è abbastanza possibilità di allestire in maniera corretta le distanze, non c’è abbastanza personale che possa seguire adeguatamente un tot di pazienti. Sono tagli che dopo il 2012 sono ulteriormente arrivati e li ho sentiti professionalmente. Si è avuto un forte incremento di lavoro, a prescindere dal Covid, che dava la sensazione di non riuscire ad arrivare ad aiutare tutti. Poi ce la si faceva, ma sempre al limite. Ecco, quello che succede adesso si spiega guardando a quello che è successo prima. Non entro nella polemica di cosa si poteva fare, nonostante gravi negligenze e inadempienze che poi si potranno analizzare. Ma considerando la grandezza di questa pandemia che ci ha investito in generale ci siamo comportati discretamente. Il problema serio e inconfutabile è che non c’erano abbastanza risorse. Non parlo di mascherine, questo è logico, prima del Covid erano sufficienti, poi siamo andati in crisi. Non è tanto questo, è proprio la mancanza di posti letto e di personale.

Cosa pensi della gestione della crisi da parte delle Istituzioni?

Da sanitario mi pare evidente che fare critica sterile contro l’operato dello Stato per qualche fine politico futuro è una cosa che va oltre il ridicolo. Qui ci siamo ritrovati tra capo e collo Godzilla, il mostro finale, con dei numeri allucinanti – e parlo solo del comparto sanitario senza toccare quello economico, ma immagino quanto possa essere complesso prendere decisioni anche relativamente a quell’aspetto. A me viene da dire che lo Stato quello che poteva fare lo ha fatto. Poi si vedrà col senno di poi. L’unica critica è semmai sul monitoraggio, soprattutto dei sanitari. Non tanto per proteggere noi ma per proteggere tutti, visto che alla fine noi sanitari siamo i più grandi “untori”. Su questo si poteva lavorare di più, ma questa è materia della Regione, e la Lombardia forse sotto certi aspetti ha ascoltato poco il Governo e anche il Comune di Milano. Ma anche per quanto riguarda la Regione, più che disorganizzazione nella gestione il danno è a monte, è quello derivato da 20 anni di tagli. In definitiva, secondo me non si è lavorato male a livello di Governo, non si è lavorato chiarissimamente in maniera limpida a livello regionale e si è lavorato molto bene a livello comunale. Il Comune ha favorito anche la creazione di iniziative di aiuto per le persone più in difficoltà, e devo dire che si sono creati anche gruppi spontanei di persone che si sono rimboccate le maniche.

Ecco, come ha reagito la gente a questa situazione?

Si è data da fare, c’è stata una grossa risposta di aggregazione. In zona Barona dove abito, appena fuori città, si è sviluppata molta solidarietà e voglia di condividere. E ho percepito pochi commenti da bar, pochi “ah, se c’ero io!”. Inoltre, almeno da casa e nel tragitto per andare al lavoro, tutta questa gente in giro non l’ho vista, le strade sono deserte. Mi sembra che si cerchi di pompare la caccia al runner o a chi porta fuori il cane per distogliere l’attenzione da cose più importanti. Solo all’inizio, prima del lockdown completo, un po’ di gente frequentava ancora i parchi, ma poi non più. Io invece mi ero messo in autoquarantena da subito, soprattutto perché avevo ed ho paura di contagiare. Questo durerà ancora per un po’, visto che del coronavirus non ci libereremo subito.

Che prospettive vedi per il futuro?

Questa crisi mi fa tornare indietro a quando avevo 20 anni e partecipavo alle manifestazioni a Nizza, Davos, Genova, e c’era la speranza che allungando una mano si potesse toccare un nuovo mondo possibile. Io mi auguro tanto che questa situazione riesca in qualche modo a cambiare le cose definitivamente, che sia un bel reset generale. Certo c’è il rischio che ci affossi ancora di più come umani, che ci faccia imbruttire ancora di più. Ma confido che invece ci sia un “lockdown” di tutto questo estetismo, voyeurismo, voglia di guardare nella vita degli altri, di questa ricerca di estremizzare sempre la propria vita, del “guarda io faccio”, “guarda io ho fatto”, “sono diventato questo”, della logica del soggettivismo capitalista, della produzione. Spero che inizi a girare tutto sotto altri canoni, che il rispetto, la collettività ritornino. Non so neanche se ci sono mai stati, ma spero che finalmente diventino la forma, lo stimolo per vivere meglio. Non è così scontato dire “non si può fermare la produzione, non si può fermare questa locomotiva”. Invece possiamo anche fermarla, scendere e goderci un attimo il panorama che ci circonda prima di distruggerlo completamente. La pandemia mi ha fatto ritornare un po’ di voglia di credere nel fatto che possiamo riappropriarci di noi stessi e non di una vita da copertina.

La prima parte dell’intervista a Lorenzo Vecchi:
“Neanche dentro un film catastrofico avrei immaginato una cosa del genere”

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