Nelle scorse settimane abbiamo conversato con Ivano Del Furia di stretta attualità e delle ricette per superare l’emergenza Covid a Sansepolcro. Oggi ampliamo il ragionamento sia in termini geografici, parlando cioè dell’intera Valtiberina, sia in termini cronologici, partendo da lontano. Con l’ex sindaco di Sansepolcro, che guidò la città dal 1976 al 1988 in quota PCI, avviamo un percorso che continueremo a portare avanti nei prossimi giorni sulla storia e gli scenari futuri della politica comprensoriale.
Una gestione politica di carattere sovracomunale nacque con quelle che erano ben due Comunità Montane.
Sì, in realtà quella di Pieve Santo Stefano ha una storia molto più lunga che precede la legge istitutiva delle Comunità Montane, cioè la 1101 del 1971. Era infatti nata prima, come Consorzio volontario che univa Pieve, Caprese Michelangelo, Badia Tedalda e Sestino. Cioè i Comuni amministrati dalla ex Democrazia Cristiana, che come nel resto del Paese aveva un discreto controllo delle aree montane e vi aveva creato dei Consorzi. In Valtiberina, i quattro Comuni del Consorzio costituivano quindi un fortilizio democristiano, mentre la cosiddetta bassa Valtiberina, cioè Sansepolcro, Anghiari e Monterchi, era la roccaforte dei comunisti.
Poi nel 1970 nacquero le Regioni e nel 1971 fu approvata la legge istitutiva delle Comunità Montane. Il Consorzio si trasformò in questo nuovo ente, la C.M. Altotevere, di cui fu primo presidente Amedeo Andreani, sindaco di Caprese. A quel punto i restanti Comuni, che avevano anch’essi tutte le caratteristiche per essere considerati zona montana, ne costituirono un’altra, la C.M. Valtiberina, presieduta dal sindaco di Anghiari Berio Nocentini. Poi nel corso degli anni settanta si ebbe un’esplosione delle forze della sinistra e quindi cominciammo a conquistare Badia, Pieve, per un periodo Caprese. Lavorammo per un’unità della vallata e per costituire un’unica Comunità Montana, e ci riuscimmo: nel 1976, quando io sostituii Ottorino Goretti nel ruolo di sindaco, Goretti divenne il primo presidente della nuova Comunità Montana unica.
Quali aspettative c’erano all’epoca sul ruolo politico di questo ente?
Le aspettative erano legate alla legge istitutiva, che era molto precisa e dava alle Comunità Montane numerosi compiti. Nel 1970 alla neoistituita Regione Toscana era passato gran parte del patrimonio forestale, mentre lo Stato aveva conservato solo la parte specialistica, per esempio vivaistica. Quanto passato alla competenza regionale fu ufficialmente delegato alle Comunità Montane, che ereditarono anche una gran massa di dipendenti. Molti c’erano già anche da prima nel Consorzio “democristiano”, erano tempi di sviluppo e a livello occupazionale era un momento particolare. La Regione delegò inoltre le competenze agricole che erano delle province, quindi laddove esistevano le C.M. – per quanto riguarda la provincia di Arezzo in Casentino e in Valtiberina – tutto quello che era il settore agricolo passò alle Comunità Montane. Perciò il compito era importante e dava anche un significativo potere politico di intervento. Poi grande rilievo ha avuto la riforma sanitaria che ha istituito le Unità sanitarie locali. La prima Usl, la 22, coincideva con il territorio della Comunità Montana e faceva capo ad essa. C’era già un comitato autonomo che era però all’interno della C.M., e il presidente della Usl non a caso era un assessore dell’ente, inizialmente Luigino Sarti. Insomma, la Comunità Montana poteva sostanzialmente intervenire su tutto, sulla programmazione economica, sulla stessa organizzazione della strumentazione urbanistica, quindi aveva un potere importante a livello di comprensorio.
Per lo meno nel primo periodo riuscì a funzionare bene.
Ebbe successo, in particolar modo nel periodo di Goretti, che lavorò con grande impegno a costruire questa unità della vallata. Anche l’opinione pubblica recepì il nuovo ente con particolare interesse, in quella fase in cui si usciva da due Comunità Montane che avevano avuto una divisione più politica che fisica. La Comunità Montana fu molto importante in particolare nei territori montani, nei quali si parlava più dell’ente comprensoriale che dei Comuni: quello che contava lì era la comunità montana!
Poi cosa è successo?
Poi c’è stato un progressivo declino, un ridimensionamento dei poteri nato a livello nazionale, che ha avuto il culmine con la trasformazione in Unione dei Comuni. Un soggetto che ha mostrato fin da subito i suoi limiti: basti pensare che Pieve ha approfittato del fatto che l’ingresso era su base volontaria per non aderire. Quella trasformazione è legata alla riforma del titolo V della Costituzione, una riforma di cui si è visto il fallimento, sotto certi aspetti, anche in questo periodo di emergenza, per quanto riguarda i poteri delle Regioni e la gestione della sanità. Sulla spinta della Lega, allora Nord, si puntò sul decentramento dallo Stato alle Regioni, sulle autonomie, e a gestire quella fase fu il Governo guidato da Massimo D’Alema, che aveva allora teorizzato che la Lega era una costola della sinistra. Poi il processo fu completato con la riforma delle province e il passaggio dei poteri dai territori alle Regioni, così che anche le deleghe delle Comunità Montane furono ricentralizzate.
E adesso abbiamo un ente comprensoriale molto diverso dal precedente.
Abbiamo un ente che non si capisce che funzioni abbia. Pur avendo un po’ di esperienza storica ho difficoltà a capire cosa dovrebbe trovare un cittadino nell’Unione dei Comuni. Che non è più neanche un’istituzione politica, ma un qualcosa alla “vogliamoci tanto bene”, “si fa una volta per uno”, ma il progetto qual è? D’altra parte tutte le istituzioni si qualificano anche secondo chi le dirige, e quindi i poteri qualche volta te li devi anche prendere. L’Unione andrebbe secondo me guidata imponendosi e cercando di dare un progetto, aprendo un confronto sul territorio, ma chi si muove per conto dell’Unione dei Comuni come progetto? Basti pensare all’assenza della Valtiberina su un tema chiave come l’invaso di Montedoglio. Pensiamo che abbiamo 150 milioni di metri cubi d’acqua e la nostra zona più ricca di agricoltura non ha neanche una goccia da Montedoglio! Tutta la parte sud della via Senese Aretina, San Leo, Gricignano, fino al Tevere e al confine con l’Umbria è senz’acqua, si pompa ancora con i pozzi e i motori a gasolio, alla faccia dell’ecologismo. E contemporaneamente si manda l’acqua ai frutteti della Valdichiana. Ben venga, ma solo dopo che tutto il nostro territorio è irrigato: ci sono già i laghi di compensazione realizzati nel crinale di Citerna, tutto è predisposto se non la rete, che è stata messa solo dall’altra parte, quindi dal lago alla Senese Aretina. Non a caso la Comunità Montana aveva fatto un grande lavoro in tema di distretti irrigui e di progetti per portare l’irrigazione nel territorio. Queste cose dovrebbero essere affrontate da un ente comprensoriale, altrimenti che ci sta a fare?
E questa analisi dove ci porta?
Al Comune unico, che è un mio pallino: in Valtiberina va fatto un “Comune Tiberino” e poi sette municipi. Il campanile va dato a tutti, ma la gestione dev’essere unica, anche per non spopolare le nostre realtà, dare loro uno sviluppo urbanistico generale, recuperando l’esistente, affrontando le questioni con un’ottica unitaria. Ma anche su questo possibile progetto chi ci lavora? Ci deve lavorare la politica facendo maturare il progetto, parlando con le popolazioni, facendo capire i vantaggi che ci sono per tutti, riducendo queste spinte campanilistiche che oggi in Valtiberina peraltro si sono molto attenuate. Se non, forse, tra Anghiari e Sansepolcro, dove una certa rivalità ha radici storiche, ma speriamo che i giovani superino anche queste cose. La vallata ha 33.000 abitanti, cioè siamo proprio sulla cifra indicata dall’Anci, l’Associazione dei Comuni, per valutare se i Comuni dovrebbero unirsi o no. Abbiamo insomma, secondo il mio pensiero, tutte le caratteristiche per andare in questa direzione e perfino una base storico-culturale: il Tevere è una grossa risorsa da usare anche per farsi conoscere, ed ecco che creando il “Comune Tiberino” non c’è bisogno di inventare niente.
È però un progetto che trova diverse resistenze.
Le resistenze sono comprensibili, bisogna cercare di smontarle spiegando le ragioni. Ma se ognuno sta seduto sulla propria sedia non le smonta nessuno.