Crisi russo-ucraina, come venirne fuori?

Turchia ed Israele protagonisti della mediazione mentre l’Europa resta priva di iniziative unitarie per risolvere il conflitto in atto

La mappa del conflitto al 28 marzo secondo l'elaborazione di Wikipedia, (CC BY-SA 4.0)

In queste ore riprendono gli incontri tra Russia e Ucraina mediati dalla Turchia. Sono incontri faccia a faccia dopo che per due settimane si sono susseguiti incontri da remoto. Secondo il presidente turco Erdoğan sono sei i punti di discussione nelle trattative tra Russia e Ucraina. Un accordo di massima su questi sei importanti aspetti potrebbe fermare le operazioni belliche, portare ad un cessate il fuoco e segnare la strada per riportare l’Europa alla normalità. Proprio il continente europeo è al momento il vero assente da una mediazione, nonostante la posizione di diretta interessata a quello che sta succedendo in Ucraina. All’interno dell’Unione Europea si sono già riversati milioni di profughi e allo stesso tempo l’economia europea paga il prezzo dell’aumento dei costi energetici e indirettamente le problematiche economiche che ritornano indietro dalle sanzioni applicate alla Federazione Russa. Il Presidente francese Macron ed il cancelliere tedesco Scholtz hanno contatti continui con Putin ma sembrerebbero più prudenti rispetto all’intraprendenza di Israele e Turchia. Il primo sa di avere il problema in casa visto l’elevato numero di russi ed ucraini che vivono nello stato ebraico. La seconda, oltre a cercare un ruolo di prestigio, ha interessi economici e di vicinato con entrambi i contendenti.

Incontro tra Vladimir Putin ed Emmanuel Macron lo scorso 7 febbraio. Kremlin.ru (CC BY 4.0)

La trattativa su neutralità e garanzie

Quattro sono gli aspetti di principio dove le distanze tra Mosca e Kiev non sarebbero incolmabili. I gruppi di lavoro starebbero per definire risultati soddisfacenti o perlomeno accettabili per le due parti. Sulla questione del non ingresso nella Nato da parte dell’Ucraina la posizione anche di Zelenskij è ormai pubblica e si tratta solo di definire quali passi Kiev dovrebbe fare e quali Paesi dovrebbero offrire la garanzia del rispetto degli accordi. La neutralità potrebbe entrare nella Costituzione dell’Ucraina assieme ad un atto di protezione garantito dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina), oltre alla Germania e alla Turchia. Assieme alla neutralità dovrà essere ribadito che il territorio ucraino non ospiterà basi militari straniere e neppure esercitazioni militari. Una delle criticità sulla questione delle basi è anche il fatto che in Crimea – che l’Ucraina continua a rivendicare come proprio territorio ma che dalla primavera 2014 è sotto il controllo militare e politico russo – ci sono basi russe come quella navale di Sebastopoli.

Il disarmo e la “denazificazione”

Di fatto è un tema parzialmente raggiunto sul campo, tenuto conto che da dopo il 24 febbraio non esiste più la marina ucraina, quasi del tutto l’aviazione e che solo i carri armati sarebbero stati ridotti del 60%-70%, secondo fonti russe. Anche le infrastrutture militari colpite sono state un numero elevato, rendendo di fatto il tema del disarmo più semplice da affrontare. Le posizioni sono vicine poiché la Russia non ha mai richiesto il completo scioglimento dell’esercito di Kiev, ma una definizione del numero delle truppe sullo stesso modello di quanto accaduto alla Germania, all’Italia e al Giappone dopo la Seconda guerra mondiale. Più complesso il tema della denazificazione, che probabilmente porterà allo scioglimento dei gruppi paramilitari inquadrati nell’esercito ucraino e all’allontanamento delle figure più esposte. Di fatto il destino del Battaglione Azov è segnato e il grosso dei membri, compresi molti comandanti, ha terminato la propria esistenza nella Battaglia di Mariupol’. I gruppi paramilitari sono attivi anche nel Donbass e secondo Mosca sono accusati di crimini contro l’umanità contro la popolazione russa compiuti durante gli otto anni di guerra. L’Ucraina deve molto a questi battaglioni perché ebbero un ruolo decisivo durante il 2014, quando l’esercito regolare aveva grandi difficoltà nell’operare.

Nonostante questo è probabile che allontanare alcune scomode figure possa giovare anche a Zelenskij nell’ottica di una rapida integrazione europea dell’Ucraina e della possibilità di governare senza ricatti di coloro che hanno sostenuto il cambio di regime nel 2014. Infine, un tema poco affrontato nella stampa occidentale ma degno di considerazione, e che potrebbe esigere risposte all’interno delle trattative di pace, è quello dei presunti laboratori biologici statunitensi in territorio ucraino. La Russia chiederà che gli Stati Uniti spieghino in forma ufficiale che tipo di attività veniva portata avanti in queste strutture vicino ai confini russi.

Volodymyr Zelenskij si rivolge al Bundestag lo scorso 17 marzo. President.gov.ua (CC BY-SA 4.0)

Il riconoscimento della lingua russa

La lingua russa è sempre stata parlata e compresa in Ucraina ed affermare che debba essere riconosciuta come ufficiale, naturalmente assieme all’ucraino, sembrerebbe quasi una cosa normale, ma nel recente passato non è stato così. Basterebbe prendere atto, come banale esempio, con quale lingua cantano la maggior parte dei cantanti e gruppi ucraini e verso quali mercati discografici si rivolgono per comprendere nel modo migliore lo stato delle cose. Per rendere una corretta idea della situazione linguistica dell’Ucraina è giusto ricordare come l’ucraino sia la lingua parlata in famiglia dalla grandissima parte della popolazione occidentale, mentre il russo è sempre stato parlato nel sud e nell’est. Nella parte centrale del paese ed a Kiev è presente il “suržik”, un dialetto che potrebbe essere definito come una fusione tra i due idiomi. Russo e ucraino sono due lingue con la stessa derivazione e in modo approssimativo si potrebbe dire che hanno tra loro un rapporto simile a quello tra italiano e spagnolo. Uno dei primi provvedimenti presi subito dopo la cacciata di Janukovyč nel 2014 fu la scelta di imporre l’ucraino come lingua unica e ufficiale anche in quelle aree dove non era parlato affatto. Assieme a questo cominciò un forzato insegnamento anche nell’est, dove non era affatto parlato. Questa scelta, giustificata dal nuovo governo come necessaria per permettere il radicarsi di un’identità ben precisa, fu vissuta dalla maggior parte della popolazione russofona come un’imposizione. Negli ultimi otto anni sono state ristrette le possibilità di pubblicare informazioni in russo da parte dei giornali, delle radio e dei canali televisivi. Si racconta che anche in tram a Kiev siano scoppiati tafferugli per un grazie detto nel modo sbagliato. Casi estremi che nulla riguardano la maggior parte della popolazione, che ha subito le nuove regole continuando ad usare in russo negli spazi privati. Il presidente Zelenskij stesso è russofono ed è diventato famoso recitando nella nota serie televisiva “Sluga Naroda” in lingua russa. Il ritorno del russo come lingua ufficiale, perlomeno nelle aree russofone, sembrerebbe un altro problema superato tra le due delegazioni trattanti.

Crimea e Donbass

Le questioni territoriali sono gli aspetti dove finora non sarebbero stati fatti passi avanti. La Russia chiede il riconoscimento dell’annessione della Crimea di otto anni fa e che l’Ucraina si rassegni a perdere le due Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk all’interno dei confini delle due oblast’ (regioni) di quanto erano sotto il controllo ucraino. La Crimea è ormai pienamente integrata nella Federazione Russa, che potrebbe anche permettere la ripetizione del referendum sull’autodeterminazione della penisola andando verso un risultato scontato. In ogni caso questa è un’ipotesi altamente improbabile, poiché non sembrerebbe possibile alcuna trattativa sul tema e anche un poco probabile rovesciamento di fronte con un attacco ucraino alla Crimea significherebbe una risposta molto sopra le righe da parte di Mosca.

Più complessa e forse decisiva la questione del Donbass. I territori in questione rappresentano una delle aree economicamente più importanti per l’Ucraina, oltre ad una consistente fetta di popolazione, quasi sette milioni di abitanti. Qui le posizioni appaiono molto lontane con Mosca che ne ha riconosciuto la piena indipendenza e Kiev disponibile al massimo a riconoscere una forma di autonomia mai applicata dopo gli Accordi di Minsk. La popolazione delle due aree sembrerebbe poco interessata al rimanere a far parte dell’Ucraina, anche se l’unico modo per avere una risposta certa sarebbe quello di farli esprimere. Il governatore della regione di Lugansk ha proposto, una volta terminata la “liberazione” dei territori ancora sotto controllo ucraino, di programmare un referendum per chiedere di entrare a far parte della Federazione Russa, allo stesso modo in cui avvenne nel 2014 con la Crimea. Naturalmente l’Ucraina ha confermato che non ne riconoscerebbe l’esito.

Il campo di battaglia dopo cinque settimane

La situazione sul fronte è ferma da alcuni giorni. Se l’ovest dell’Ucraina è stato toccato solo da bombardamenti su infrastrutture militari e logistiche, sono le altre tre aree quelle dove è più utile e allo stesso tempo complesso cercare di capire cosa accade.

A sud, lungo la costa del Mar Nero e del Mare di Azov, ci sono state le conquiste territoriali più evidenti. Muovendosi dalla Crimea i soldati russi hanno realizzato il corridoio di terra dalla penisola fino al confine con la Repubblica popolare di Doneck. Al momento è ancora in corso l’assedio di Mariupol’, con la resistenza di alcune sacche di militari ucraini all’interno delle aree industriali. L’occupazione ha al momento una profondità di circa cento chilometri rispetto alla linea costiera e comprende gran parte dell’oblast di Zaporižžja. In direzione opposta occupando l’intera regione di Cherson i russi si sono avvicinati a Mykolaiv sulla strada verso Odessa, che dista ancora circa centocinquanta chilometri. Sempre nella regione di Cherson è stato riaperto il canale artificiale che porta l’acqua del fiume Dnepr in Crimea e che era stato chiuso dagli ucraini nel 2014.

A nord i russi hanno varcato il confine ucraino dirigendosi su più direzioni. Ad ovest di Kiev sono fermi ad Irpin’, dopo aver preso il controllo di tutta l’area di Cernobyl’ e della principale strada di comunicazione tra la capitale e l’ovest della nazione. Ad est di Kiev hanno circondato completamente le città di Cernogov, Sumy e bloccato in più direzioni Charkov. Controffensive ucraine si alternano a piccoli avanzamenti russi. Di fatto la situazione è quasi ferma.

L’est è il fronte militarmente più interessante e in prospettiva più pericoloso. Qui si concentra la gran parte delle forze ucraine, probabilmente tra i 75mila e i centomila uomini. La regione di Lugansk è quasi del tutto sotto il controllo della Repubblica ribelle, almeno per il 95% del territorio, grazie ad un’azione da nord della Russia e da sud delle truppe secessioniste. Per quando riguarda Doneck sono di fatto conquistati Mariupol’ e il suo entroterra, mentre è in stallo fin dal primo giorno la situazione ad ovest della città. I russi stanno cercando di aggirare la ben disposta difesa ucraina che non perde occasione di sparare su Doneck. Se non arriva nel breve periodo un cessate il fuoco sarà qui che deflagrerà il vero conflitto, che con ogni probabilità avrà un’intensità molto maggiore di ciò che si è visto finora.

Se non arrivano reali rinforzi militari all’Ucraina, come i carri armati auspicati da Zelenskij, che in ogni caso per poter essere schierati sul fronte orientale dovrebbero anche riuscire a percorre gli oltre mille chilometri che separano il confine con la Polonia da quello col Donbass, il perdurare dello scontro non potrà fare altro che giocare a favore della Russia, che dispone di maggiori riserve di materiale bellico anche senza alzare il livello dello scontro con l’uso di armi più potenti. Con un ulteriore avanzamento, e relative perdite, dei russi le trattative di pace saranno ancora più problematiche.

L’Europa sta a guardare

Continua ad essere incomprensibile la strategia autolesionista dei paesi europei. Questo nonostante siano i più esposti alle conseguenze della crisi in atto, sia come numero di profughi arrivati sia per le conseguenze economiche, al contrario di Usa e Cina che non subiscono alcun contraccolpo. L’Europa ha un ruolo attivo nel sostegno economico e militare all’Ucraina, allo stesso tempo è protagonista di sanzioni economiche nei confronti della Russia, mentre non conduce nessun vero tentativo di mediare o cercare una via di uscita accettabile per le due parti in causa che sia accettabile per i cittadini europei. I pochi tentativi vengono fatti singolarmente da Germania e Francia, che hanno anche interessi propri in ballo, soprattutto nel mercato russo. La prima è ancora il maggiore acquirente di energia, mentre la seconda ha importanti interessi commerciali. Non è un caso che quasi tutte le realtà francesi che operano a Mosca e nel resto del Paese non abbiano in alcun modo sospeso le proprie attività, contrariamente ad una parte delle imprese occidentali.

Incontro fra i leader del G7 a margine di un meeting Nato il 24 marzo

L’Europa avrebbe la possibilità di mettere sul piatto di Russia e Ucraina opportunità economiche. In cambio di un ritorno alla normalità potrebbe impegnarsi nel sostegno alla ricostruzione, all’ammodernamento delle infrastrutture e ad ampliare il proprio commercio con entrambi i Paesi. Oltre alle azioni sanzionatorie che al momento non hanno prodotto risultati importanti andrebbe giocata la carte di coinvolgere i due Paesi nella costruzione di un mercato europeo autosufficiente da Cina e Stati Uniti. Russia e Ucraina assieme hanno quasi duecento milioni di abitanti, oltre a risorse energetiche, naturali e agricole enormi. Il percorso di integrazione europea dell’Ucraina dovrebbe essere accelerato in cambio di concessioni difficili da digerire. Se non direttamente con la Russia si potrebbero intavolare accordi economici con la Comunità Economica Euroasiatica, che coinvolge la gran parte dei territori in passato all’interno dell’Unione Sovietica, compresi Bielorussia e Centroasia.

Alcune delle dinamiche che hanno assicurato la calma nella ex Jugoslavia dopo la fine del decennio di guerre si dovettero proprio al contributo europeo per il miglioramento della situazione economica dei Paesi coinvolti arrivato, nel caso di Slovenia e Croazia, anche all’ingresso nell’Unione. Siccome non ci vogliono esperti di geopolitica ed economia per pensare a tutto questo, è probabile che ad oggi semplicemente ciò non venga considerato interessante dalle classi di governo dei singoli Stati europei.

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