Martedì 3 novembre i cittadini degli Stati Uniti voteranno per scegliere il Presidente che guiderà una delle nazioni più importanti del mondo dal 20 gennaio 2021 al gennaio del 2024. In realtà il 3 novembre sarà l’ultimo giorno utile per esprimere la propria preferenza, dato che era possibile farlo già molti giorni prima attraverso il voto postale. Il motivo per cui si vota di martedì è decisamente originale e risale alle prime elezioni presidenziali americane. Il cosiddetto “giorno dell’elezione” è il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Quindi la data è variabile e può cadere tra il giorno 2 e il giorno 8 del mese di novembre, periodo in cui i grandi proprietari terrieri erano più liberi dai loro impegni lavorativi nel settore dell’agricoltura. Considerato che votare la domenica avrebbe potuto interferire con l’attività religiosa, fu pensato al martedì per consentire a tutti di usare il lunedì per spostarsi verso i luoghi delle elezioni. Infine l’accorgimento di evitare il primo giorno del mese serviva e serve a non far sovrapporre le elezioni con la sentita festa di Ognissanti.
Bisogna ricordare che assieme al Presidente vengono eletti anche un terzo dei componenti del Senato e la totalità dei componenti della Camera dei Rappresentanti. Quest’ultima viene rinnovata ogni due anni, mentre i senatori restano in carica sei anni, con la particolarità che sempre ogni due anni scade il mandato di un terzo di loro.
I grandi elettori e i requisiti per essere eletti Presidente
La Costituzione americana indica i requisiti necessari per poter ricoprire la carica di Presidente. Bisogna avere almeno 35 anni di età, essere cittadini statunitensi dalla nascita ed essere stati residenti negli Usa negli ultimi 14 anni. L’elezione del Presidente e del vicepresidente non avviene in modo diretto. Non vince chi prende più voti, ma vince chi riesce a far eleggere il maggior numero di grandi elettori. Infatti sono queste figure che eleggono realmente Presidente e vice, e non lo fanno nei primi giorni di novembre, ma solamente il lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre.
Attualmente i grandi elettori sono 538 e può essere eletto Presidente solamente un candidato che riesce a conquistarne almeno 270. Ognuno degli Stati federati degli Usa elegge dei grandi elettori. Il numero coincide con il numero dei senatori, due per ognuno dei 50 stati federati, sommata al numero dei deputati della Camera dei Rappresentanti che sono 435, eletti in proporzione alla popolazione. Ulteriori tre grandi elettori spettano al Distretto di Columbia, ovvero la zona della capitale Washington, che non ha una propria rappresentanza nel parlamento americano. È necessario chiarire che i grandi elettori coincidono come numero con i senatori e i deputati, ma sono persone differenti. In Italia il Presidente della Repubblica è eletto dai membri del Parlamento integrati dai rappresentanti delle regioni, negli Stati Uniti no. Seguendo la ripartizione dei senatori e dei deputati americani tra gli Stati della federazione si deduce che nessuno Stato potrà avere meno di tre rappresentanti, mentre quelli più popolosi eleggeranno un numero maggiore di grandi elettori adeguandosi ai censimenti decennali. Attualmente tutti gli stati tranne due assegnano tutti i rappresentanti disponibili al candidato che ottiene più voti, con una sorta di tutto al più votato. Solo il Nebraska (5 eletti) ed il Maine (4) usano un sistema differente. I due poco popolosi Stati assegnano i due seggi corrispondenti a quelli senatoriali al candidato più votato entro i confini dello Stato e la quota della Camera dei Rappresentanti viene distribuita in collegi elettorali uninominali di simili dimensioni demografiche. Quindi ogni candidato presidente deve candidare alle elezioni di novembre una lista di persone di fiducia che una volta elette lo dovranno votare nel mese successivo quando i grandi elettori saranno chiamati ad indicare il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Interessante l’aspetto che solamente i rappresentanti di 27 dei 51 Stati chiamati a votare abbiano una specie di obbligo di mandato. I delegati si riuniscono nella capitale del proprio Stato e votano in modo segreto per il candidato a Presidente. Il fatto di essere ognuno nella propria sede rende facilmente individuabili eventuali voti difformi dall’indicazione dei cittadini. Negli Stati dove è di fatto obbligatorio votare in linea con il mandato ricevuto si possono rischiare severe multe, condanne penali e in alcuni casi di vedere il voto in dissenso annullato e sostituito da quello di un altro grande elettore in linea col mandato ottenuto. Come vedremo più avanti è abbastanza raro riscontrare voti per altri candidati, cosa comunque accaduta sia intenzionalmente che per casi di errore dove è stato invertito il voto per il Presidente con quello per il vicepresidente.
Le elezioni Presidenziali del 1824
Ormai da qualche decennio siamo abituati a vedere il sistema elettorale statunitense fortemente bipolare, con un candidato democratico ed uno repubblicano accompagnati da altri minori e quasi sempre sconosciuti. Se sono solo due i candidati ad aggiudicarsi i grandi elettori è naturale prevedere che uno dei due possa raggiungere e superare la quota 270, corrispondente alla metà più uno dei voti. Esiste anche il caso del pareggio a quota 269, situazione mai accaduta e decisamente poco probabile. In passato, però, quando non c’erano solamente due candidati, poteva succedere che nessun candidato raggiungesse la metà più uno dei grandi elettori. Alle elezioni presidenziali del 1824 ben quattro candidati si spartirono l’elettorato di secondo livello e nessuno di loro poteva essere eletto a Presidente. In questo caso è la Camera dei Rappresentanti ad eleggere il Presidente scegliendo tra i tre più votati alla consultazione elettorale. Il Senato invece, con lo stesso criterio, sceglie il vicepresidente. Nel 1824 la Camera scelse John Q. Adams (30,9% dei voti popolari e 84 grandi elettori) preferendolo al largamente più votato Andrew Jackson (41,4% dei voti popolari e 99 grandi elettori). Curiosamente entrambi i candidati indicarono come vicepresidente John Calhoun, facilitando la successiva nomina.
Primo tra i votanti ma non tra i grandi elettori
Per trovare una situazione del genere basta tornare alle elezioni presidenziali del 2016. La candidata del Partito democratico Hillary Clinton raccolse quasi 66 milioni di voti, mentre il rivale repubblicano Donald Trump si fermò a a 63 milioni. Purtroppo per la Clinton la distribuzione dei grandi elettori vide Trump prevalere nettamente: 304 a 227, con altri 7 voti dispersi. Sempre in questa elezione è da segnalare che i candidati minori si spartirono altri circa 7 milioni di voti apparentemente decisivi. La sconfitta della moglie del già due volte presidente Bill Clinton fu ancora più cocente considerato che tutti i sondaggi fatti prima del voto la davano ampiamente in testa alla consultazione elettorale.
Altro caso emblematico risale alle elezioni del 2000 e vide ancora una volta sconfitto un candidato democratico. Al Gore ottenne circa mezzo milione di voti in più del poi eletto presidente George Bush. Decisivo fu il voto della Florida, della quale era governatore proprio il fratello di Bush. Il riconteggio dei voti di questo stato avvenne più volte con accuse reciproche di brogli elettorali. Alla fine in Florida prevalse Bush per appena 537 voti su circa sette milioni. Questo permise al repubblicano di conquistare i 25 grandi elettori che lo portarono a prevalere su Gore per 271 a 266. Decisivi, anche in questo caso, i quasi tre milioni di voti raccolti dal candidato verde Ralph Nader che probabilmente sarebbero serviti a Gore per ribaltare l’esito in Florida ed in altri Stati federati.
Più lontani nel tempo gli altri tre casi simili. Nel 1888 il repubblicano Benjamin Harrison ottenne 90.000 voti in meno del democratico Grover Cleveland ma ebbe 233 grandi elettori contro 168. Il numero diverso di votanti di secondo grado è dovuto al fatto che gli Stati Uniti nel XIX secolo avevano meno Stati federati rispetto ad oggi. Dodici anni prima, nel 1876, ancora una volta fu un repubblicano a conquistare la Casa Bianca con un numero di voti popolari inferiore all’avversario: Rutherford Hayes ottenne 250.000 voti in meno di Samuel Tiden ma un grande elettore in più. Infine il già citato caso del 1824, quando la dispersione di voto non fece avvicinare nessun candidato alla soglie di elezione.
L’unico Presidente mai eletto dal popolo
Seppure attraverso una procedura indiretta, tutti i 45 Presidenti degli Stati Uniti sono passati attraverso le elezioni di novembre. Anche i vicepresidenti subentrati all’eletto poi morto o dimessosi erano stati votati contestualmente al presidente. Quando un vicepresidente assume i poteri presidenziali deve nominare un nuovo vice, che deve essere ratificato dal Senato e dalla Camera. Molto interessante è il caso avvenuto successivamente alle elezioni del 1972 quando Richard Nixon si riconfermò presidente ottenendo addirittura 49 stati su 51. Spiro Agnew venne confermato vicepresidente di Nixon, ma nell’ottobre del 1973 si dovette dimettere per ragioni di opportunità, visto che si erano verificate cose non chiare legate a contributi elettorali. Su proposta di Nixon il Congresso elesse Gerald Ford alla carica di nuovo vicepresidente. Nessun poteva immaginare che nell’estate del 1974 anche Nixon si sarebbe dovuto dimettere, unico caso in quasi 250 anni di storia, per lo scandalo Watergate. Ford si ritrovò ad essere Presidente degli Stati Uniti per due anni e mezzo senza avere avuto un mandato popolare. Durante la sua presidenza concesse il perdono presidenziale a Nixon e pur candidandosi nel 1976 venne battuto dal democratico Jimmy Carter.
Il limite dei due mandati
Fino alla metà del XX secolo quella del doppio mandato era una norma non scritta. Nessuno pensò di superare questo limite ad esclusione del democratico Franklin Delano Roosevelt, che riuscì ad essere eletto 4 volte, più precisamente nel 1932, 1936, 1940 e 1944. Nel corso del suo quarto mandato morì e fu sostituito da Harry Truman, dopo essere stato Presidente degli Stati Uniti per un totale di dodici anni, un mese ed una settimana. Nel 1951 fu inserito nella Costituzione il limite di due mandati anche non consecutivi. Nessuno con le attuali regole potrà mai superare la durata della presidenza Roosevelt, anche se in linea teorica è possibile fare due mandati e mezzo, poiché se si diventa Presidente essendo stati vicepresidente per un periodo inferiore alla metà del mandato, questo non si va a contare come mandato pieno. Quindi è tecnicamente possibile essere Presidente degli Stati Uniti 10 anni meno un giorno, anche in mandati non consecutivi. La classifica del mandato più breve vede al comando lo sfortunato William Henry Harrison che vinse le elezioni del 1840, si insediò il 4 marzo del 1841 e morì di polmonite il 4 aprile dello stesso anno. Si ammalò proprio nella fredda giornata della cerimonia di insediamento.
Membri della stessa famiglia e mandati non consecutivi
In tempi recenti è noto che George Bush senior e George Bush junior erano padre e figlio. Il primo era stato Presidente nel 1988 per poi essere sconfitto da Bill Clinton nel 1992. Il figlio è stato Presidente vincendo le elezione del 2000 e del 2004. In precedenza la stessa situazione si presentò nella famiglia Adams. Il padre John, secondo Presidente degli Stati Uniti, ricoprì un mandato vincendo le elezioni del 1796 e fu l’unico presidente della storia espresso dal Partito Federalista. Perse poi le successive elezioni del 1800 contro Thomas Jefferson. Il figlio, sempre di nome John, vinse le turbolente elezioni del 1824. Esattamente come il proprio padre anche John Adams junior non riuscì a confermarsi Presidente quattro anni dopo. Caso quasi unico, almeno in una democrazia occidentale, il caso che stava per vedere Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente Bill, sfiorare la vittoria alle elezioni del 2016. Se Hillary avesse vinto, oltre a diventare la prima donna Presidente, avrebbe contribuito a restringere a solo tre famiglie (i Bush, gli Obama e appunto i Clinton) la carica presidenziale dal 1988 al 2020. Infine un’altra curiosità storica degna di nota è che in un solo caso un cittadino è stato Presidente per due mandati non consecutivi. Si tratta di Grover Cleveland, vincitore nel 1884, perdente nel 1888 (seppure in vantaggio nei voti popolari) e di nuovo vincente nel 1892.
Dispersione di voti dei grandi elettori
Esaminando solamente il XX e XXI secolo, ovvero da quando si è fortemente polarizzato il voto tra due candidati, non sono molti i casi di mandato elettorale non rispettato dai grandi elettori, e soprattutto non sono mai stati determinanti. Siccome si vota Presidente e vice in due urne separate è più volte successo che il grande elettore abbia accidentalmente invertito i due nomi, e quindi è capitato di trovare nei verbali di votazione un singolo voto destinato al Presidente attribuito al vicepresidente candidato e viceversa. Altre volte il voto difforme è stato dato per protesta o per dare qualche segnale politico non sempre chiaro. Successivamente alla elezioni presidenziali del 2016 ben sette grandi elettori, due di Trump e cinque della Clinton, votarono in modo difforme. Tuttora questo dato costituisce un record. Risultarono votati come Presidente, oltre a Trump e la Clinton, anche l’ex Segretario di Stato Colin Powell con tre voti e Bernie Sanders, Ron Paul, John Kasich e Faith Spotted Eagle (un leader indiano) con un voto ciascuno. Nel 1972 un delegato repubblicano votò il candidato presidente del Partito Libertario che non aveva conquistato grandi elettori. Nel 1956 ci fu un “tradimento” in casa democratica quando un grande elettore sostenne con il proprio voto un democratico diverso da quello candidato alla presidenza.
In tre competizioni elettorali del dopoguerra un terzo candidato riuscì ad aggiudicarsi un numero importante di grandi elettori. La particolarità è che in tutti e tre i casi si trattava di liste molto forti negli stati meridionali e fortemente segregazioniste. Infatti si trattava di esponenti in rotta con il Partito democratico, colpevole di aver aperto alla parità razziale. Nel 1948 un suprematista bianco, Strom Thurmond, si aggiudicò ben 39 voti in stati del Sud storicamente sensibili a questo tipo di tematica. Anche nel 1960, quando vinse J. F. Kennedy, un terzo candidato, Harry Byrd, ex democratico che si definiva segregazionista razziale riuscì a conquistare 15 grandi elettori sempre nel Sud del paese. Infine il risultato più importante, nel 1968, quando George Wallace riuscì a conquistare ben 46 grandi elettori che non impedirono comunque al repubblicano Nixon di vincere le elezioni. In tutti e tre i casi la strategie era di riuscire a condizionare l’elezione di secondo livello ipotizzando di diventare decisivi tra i due principali contendenti.