Cesare Farinelli, già amministratore comunale a Sansepolcro negli anni novanta e duemila, è il coordinatore provinciale della Uil di Arezzo. Lo abbiamo incontrato per parlare dell’impatto del coronavirus sul mondo del lavoro.
Quale scenario ci troviamo di fronte dopo oltre un anno di pandemia?
Lo scenario è drammatico sotto tutti i punti di vista, sia per quanto riguarda il lavoro che la salute, che sono due temi che non si possono scindere. Il dramma è un po’ per tutti, anche se chi ha sofferto di più sono dei settori specifici, come la ristorazione, il turismo, tutto l’indotto che ruota attorno al commercio. Ad ogni modo è chiaro che non ritorneremo a quello che era prima di un anno fa: della pandemia resterà traccia, anche se per certi aspetti riusciremo a sconfiggerla. Qualcosa dovrà quindi cambiare anche sotto l’aspetto dell’organizzazione del lavoro. Siamo partiti forzatamente con lo smart working e abbiamo visto che in alcuni settori può funzionare e può essere un aiuto per le famiglie nella gestione di figli o anziani. Però dev’essere una pratica gestita bene e non diffusa per tutti, perché chi fa front office, come per esempio gli sportelli del sindacato o del comune, ha bisogno di un contatto fisico umano con l’interlocutore, per rassicurarlo e aiutarlo. Poi dobbiamo capire quante attività produttive riapriranno. Al di là dei ristoranti, che hanno avuto una bella decimazione, sono molte altre le attività di cui non sappiamo – anche in base a quelli che saranno gli aiuti del Recovery Plan – se saranno in grado di ripartire. Siamo insomma in un limbo in cui nessuno può dire con certezza quello che succederà, perciò siamo preoccupati.
Cosa è cambiato nello specifico dell’attività del sindacato nella fase della pandemia?
È cambiato molto in primo luogo sotto l’aspetto della coscienza morale. Io ho avuto il Covid e sono stato in casa con la mia famiglia per 20 giorni, ma prima e dopo in ufficio avevo ed ho continue richieste di incontro da parte di cittadini che avevano bisogno di capire cosa fare. Noi abbiamo un’interlocuzione diretta con il cittadino: a volte non possiamo neanche dargli risposte, ma possiamo almeno consigliarlo sui percorsi da intraprendere. In definitiva è cambiato tantissimo sotto l’aspetto umano, professionale e istituzionale. Fino a questioni organizzative magari banali, come il non poter più far entrare tutti e lavorare solo su appuntamento, o tutte le necessarie sanificazioni.
Quale significato assume il Primo maggio in questo contesto?
Il Primo maggio saremo a Levane dove sono bruciate due aziende e tante persone non hanno certezza di poter riprendere il lavoro, visto che dovremo capire se le proprietà potranno rimettere in piedi la produzione e mantenere i dipendenti. Rispetto al messaggio che può dare oggi questa festa le riflessioni sono tante. Io sono nel sindacato da 54 anni e da una quindicina, da quando sono in pensione, sono impegnato in maniera diretta. Posso dire che è cambiata anche la mentalità: i sindacati si sono sempre battuti per princìpi e diritti che oggi sono sempre più difficili da conservare. Il mondo del lavoro deve cambiare e tutti dovremo pensare che il posto fisso sarà molto più complicato da avere. Il sindacato deve proporre strade che, a prescindere dal posto fisso, a contratto, co.co.pro., garantiscano che chi ha 40 o 50 anni all’occorrenza sia in grado di riconvertirsi. Sta a noi proporre soluzione insieme alle istituzioni per cercare di formare le persone, che devono comunque avere un posto di lavoro.
Quali considerazioni si possono fare nello specifico della Valtiberina?
Per quanto riguarda la nostra realtà mi preoccupa la piccola e media azienda, l’artigianato, quella nicchia di eccellenza che fino a poco tempo fa avevamo e che da noi rappresenta il 60% dei posti di lavoro. In questo territorio sarebbe necessario riuscire a costruire un ciclo complessivo di filiera corta legata alla produzione agricola e al manifatturiero, però serve che qualcosa cambi, altrimenti resta solo grande preoccupazione. Anche perché gli strumenti che le istituzioni possono mettere in campo sono molto limitati, al di là dell’aspetto urbanistico che è determinante, ed è molto difficile mettere insieme dei criteri convenienti per far restare le aziende in Valtiberina.