Ha segnato in tutte le categorie in cui ha giocato, dalla Serie C fino ai campionati amatoriali, facendo del gol un “marchio di fabbrica”. Attaccante dotato di tecnica sopraffina e con una capacità di inquadrare la porta superiore alla media. Aldo Giovagnini, noto a tutti gli appassionati come “Quaglina”, ha spesso e volentieri fatto del gol un’arte, realizzando in carriera 250 reti nei suoi 20 anni di militanza in campionati FIGC e oltre 100 tra gli amatori, giocando fino ad un paio di stagioni fa, alla soglia delle 58 primavere. Un “incubo” per i difensori rivali perché in area di rigore sapeva farsi trovare al punto giusto nel momento giusto e perché se riusciva a calciare difficilmente sbagliava. Il gol ma non solo, perché è sempre stato abile nel giocare per la squadra, nel mettersi a disposizione, nell’adattarsi alle caratteristiche dei compagni e nell’affrontare con l’atteggiamento giusto i vari contesti (dagli stadi di Serie C ai campi di provincia). Oggi con Aldo rivivremo i momenti più intensi di una carriera che lo ha tra l’altro visto grande protagonista in tutte le compagini del nostro territorio: dal Sansepolcro alla Baldaccio, senza però dimenticare Monterchiese, Sulpizia, Capresana e Santa Fiora. Con tanti gol realizzati e con tante soddisfazioni ottenute, in un percorso contraddistinto da una passione infinita per il calcio. Partendo dall’inizio di questa avventura, quando il “Quaglina picino”, così come lo chiamavano a Sansepolcro, faceva addirittura il portiere.
Quando hai cominciato a giocare a calcio?
Non ricordo quanti anni avevo, ma ero piccolissimo e giocavo assieme a ragazzi molto più grandi di me. Ci trovavamo o al Santa Maria, o in altri campetti, quello dove c’era il tiro al piattello oppure lungo il Tevere. Essendo il più piccolo mi facevano fare il portiere di riserva, quindi giocavo poco o niente, ma io continuavo imperterrito ad andare. All’età di 7-8 anni cominciai ad allenarmi nel Biturgia. Dato che nelle gare disputate in precedenza con i ragazzi più grandi stavo in porta, mi presentai come portiere. Per fortuna il mister, Luigi Falasconi, dopo un paio di allenamenti fatti, ovviamente a quell’età senza ruoli precisi, mi disse “tu sei una punta”. Ci vide bene e così iniziai a segnare. L’anno dopo passai al Sansepolcro.
In maglia bianconera hai fatto tutta la trafila giovanile. Quali i momenti che ricordi con maggior piacere?
Furono anni di crescita a livello calcistico e di tanto divertimento. Giocare a pallone per me è sempre stata una delle cose più belle del mondo e da giovane lo era ancora di più. Ricordo gli allenatori Boncompagni e Del Bene, le sfide negli allievi contro il Siena e soprattutto contro la Fiorentina allenata dal brasiliano ed ex campione del mondo Amarildo, in cui a marcarmi era Guerrini. Con lui sempre duelli avvincenti. Ero veloce e tecnico e di gol già ne facevo, così un giorno Flaborea, che era mister della prima squadra, mi portò a fare un provino a Ferrara per la Spal. La mia squadra vinse 1-0, grazie proprio a un mio gol. Ero piaciuto ed ero in lizza per essere preso, ma la scelta cadde su un altro giocatore perché aveva un anno in meno. Così almeno mi fu riferito.
Ricordi il tuo esordio nella prima squadra del Sansepolcro?
Impossibile dimenticarlo, perché fu un debutto meraviglioso. Era il 1976, io avevo 16 anni. Nell’ultima gara del campionato di Serie D giocavamo al Buitoni con il Montevarchi. Il mister mi mandò a scaldare, poi a 10 minuti dalla fine mi disse di entrare. Perdevamo 1-0 e presi il posto di Tulliani soprannominato il “vichingo”. Già mettere piede in campo e giocare con i formidabili calciatori che facevano parte di quel Sansepolcro fu emozionante, ma ciò che accadde pochi istanti dopo lo fu ancora di più. Su calcio d’angolo a nostro favore io andai a saltare prendendo il tempo al mio difensore che mi spinse. L’arbitro indicò il dischetto e Bonfante realizzò su rigore il gol del pari. Fu una gioia enorme per me e mi arrivarono tanti complimenti.
L’anno seguente?
Giocai con la berretti e feci altre presenze in prima squadra, poi alla vigilia della stagione 1978-1979, quella della storica promozione del Sansepolcro in Serie C, il nuovo direttore sportivo Efrem Dotti girò in prestito molti giovani di quella squadra. Io per esempio alla Monterchiese. Mister Silvano Grassi mi disse che c’era stato un errore e che mi avrebbe voluto tenere. Il passaggio era avvenuto, ma voleva che in settimana mi allenassi con il Sansepolcro e così feci. La compagine bianconera conquistò la promozione in Serie C e io a fine anno nell’amichevole per il doppio festeggiamento di Sansepolcro e Città di Castello, ero in panchina e mi stavo scaldando, quando per intemperanze del pubblico la gara fu sospesa.
La stagione a Monterchi fu comunque molto importante, vero?
Si. In settimana mi allenavo con il Sansepolcro e la domenica giocavo con la squadra gialloverde in Seconda Categoria. In attacco eravamo io e Bruno Volpe. Io giovane e lui giocatore esperto da cui ho imparato molto nello stare in campo e su come mettere in difficoltà i difensori. È stato il mio maestro e insieme segnammo 32 gol: 15 io e 17 lui. In quella stagione tra l’altro facevo parte anche della rappresentativa provinciale e nei vari match Grassi e Dotti venivano a vedermi perché volevano riportarmi a Sansepolcro. Tornai l’anno dopo in Serie C2. Grassi era un grande allenatore e una persona splendida. Mi dava fiducia e mi stimava. Per me è stato un secondo padre. Iniziai il campionato da terza punta, ma giocai diverse partite e segnai qualche gol.
Ti ricordi la prima rete?
Quarta giornata di campionato mi sembra, ad Alba in Piemonte. Vincemmo 1-0 e io segnai il gol decisivo su assist di Facchin. Lui mi servì in verticale premiando il mio scatto in profondità e io calciai in diagonale. Una grande soddisfazione per me e anche per il Sansepolcro dato che quella fu la prima storica vittoria in Serie C. Tornammo a casa a tarda sera e tanti tifosi ci aspettarono per festeggiare quel successo. Io ero giovane e felice di esser stato protagonista di un momento così bello. E’ stato il gol più importante della mia carriera, ma nei miei 2 anni in Serie C a Sansepolcro feci altri bei gol: uno ad esempio con il Formia al Buitoni di testa dopo un perentorio stacco. Stavo per segnare anche a Zenga, portiere del Savona al tempo, ma il mio tiro fu deviato da Tricca e quindi il gol fu attribuito a lui. Ricordo anche una gara in trasferta con la Lucchese prima in classifica davanti a 9000 spettatori. Entrai sull’1-0 per loro e alla fine il risultato fu 1-1. Ottimo punto per noi, delusione per loro. Dopo la partita i tifosi locali ci assediarono e lasciammo lo stadio scortati dalle forze dell’ordine pur senza aver fatto nulla. In quella stagione fui chiamato anche nella rappresentativa nazionale di Serie C.
Altra bella esperienza. Come andò?
Un triangolare tra Italia del Nord, Italia Centrale e Italia del Sud. Io ovviamente giocai con l’Italia Centrale e in squadra c’erano giocatori forti, a iniziare dai portieri Orsi e Bistazzoni per arrivare poi a Baldini, Bertoni e Benedetti. Noi affrontammo a La Spezia l’Italia del Nord in cui giocavamo tra gli altri Zenga, Vialli e Mancini. Vincemmo noi 1-0 e fu una bella emozione. Poi per un disguido non giocai la finale con l’Italia del Sud che si tenne a Cava de’ Tirreni. A fine anno mi cercò il Como che aveva conquistato la promozione in Serie A. Mi chiamarono anche i dirigenti lombardi, ma qualcosa non andò per il verso giusto e non se ne fece niente. In questi due momenti persi prima l’occasione di mettermi in mostra e poi forse un treno importante per il prosieguo della mia carriera.
Come fu il tuo secondo anno in Serie C a Sansepolcro?
Partimmo con 5 punti di penalizzazione e chiudemmo la stagione a quota 24. Purtroppo retrocedemmo, ma lottammo fino all’ultimo e senza il fardello di quel -5 ci saremmo salvati. Miceli e Recagni si susseguirono in panchina. Per me fu una bella stagione assieme a tanti giocatori formidabili ed in un momento favoloso per il calcio biturgense. Io quell’anno ero militare, nella compagnia atleti e la base di allenamento era lo Stadio della Cecchignola a Roma. Con me c’erano tra gli altri Osti, Masi, Bonetti e Sebino Nela con cui condividevo la camera e con cui si creò un rapporto di grande amicizia. Ci furono un paio di episodi molto divertenti.
Tipo?
Imitava alla perfezione Gianni Di Marzio, allenatore che aveva avuto al Genoa e mi faceva morire dal ridere. Era poi uno dei giocatori più ricercati e mi diceva spesso “Aldo, mi sa che vado alla Fiorentina”. Io ero felice dato che è da sempre la squadra di cui sono tifoso. Però un giorno il suo futuro cambiò e mi disse “vado alla Roma”. Ci rimasi male e lui per farsi perdonare mi portò a cena in un famoso ristorante in Piazza di Spagna. Appena entrammo disse “sono Sebino Nela, ho un tavolo prenotato”. Si sapeva ormai che sarebbe andato alla Roma e quelle parole scatenarono entusiasmo. Ci accolsero come star e lui mi disse sorridendo “capito Aldo perché ho scelto la Roma?”.
La tua esperienza al Sansepolcro si era nel frattempo conclusa, vero?
Il treno per fare un salto di qualità era forse passato e così decisi di trovarmi un lavoro. Potevo allenarmi di meno, ma continuai comunque a giocare perché senza calcio non potevo stare. Passai alla Monterchiese in Prima Categoria in una squadra fortissima allenata da Valerio Piccinelli e per due anni di fila ci piazzammo al 2° posto in graduatoria mancando per un soffio la promozione. Io segnai tanti gol, uno dei quali veramente bello a Cavriglia, come mi ha ricordato il mio amico Testerini: un sombrero al difensore avversario con tiro di controbalzo al palo opposto. Alla fine della seconda stagione mi chiamò il Poppi e in Casentino trascorsi 5 anni splendidi. Trovai entusiasmo e ci andavo volentieri anche se era distante da casa. Le partite più sentite erano i derby con Bibbienese, Pratovecchio e Stia. Se vuoi ti dico chi mi marcava nei match con lo Stia.
Certamente…
Maurizio Sarri. Erano duelli molto intensi perché lui fisicamente era forte e poi era uno tosto, mentre io ero guizzante e tecnico. Le prime volte erano continue scintille, ma come spesso accade quando ti affronti così spesso, nacque una certa stima reciproca. Quando qualche anno fa venne a Sansepolcro a ritirare il Premio La Clessidra io ero presente. Mi guardò un paio di secondi e poi mi disse “quante battaglie abbiamo fatto”. Ha fatto una grande carriera, ma non ha comunque dimenticato i suoi trascorsi e quella sua battuta mi fece molto piacere. Tra l’altro una volta vincemmo un derby con lo Stia per 1-0 grazie ad un mio bel gol: tiro da fuori area con palla che andò a sbattere sulla traversa prima di entrare. Dopo 5 anni la distanza iniziava a pesarmi e così mi avvicinai a casa, passando alla Sulpizia in Seconda Categoria.
Come fu l’avventura a Pieve Santo Stefano?
Molto positiva. Nei primi due anni altrettanti campionati di vertice, poi nella terza stagione ci piazzammo al 1° posto pari merito con altre due squadre, ma la promozione sfumò a causa della classifica avulsa. Un anno dopo però ci rifacemmo e vincemmo il campionato portando la Sulpizia per la prima volta nella sua storia in Prima Categoria. Restai 5 stagioni a Pieve e realizzai un buon numero di gol. Poi nel 1994-1995 mi chiamò la Baldaccio Bruni in Prima Categoria e anche ad Anghiari trascorsi 3 annate meravigliose.
Tra l’altro contribuendo a portare per la prima volta la Baldaccio in Promozione.
Prima del mio arrivo la squadra biancoverde si era salvata alla fine, così la rosa fu rinnovata. Il primo anno fu buono, il secondo eccezionale. C’erano Fernando Chiasserini in panchina ed in attacco io facevo coppia con Riccardo Del Vecchio. Il suo arrivò portò entusiasmo e fu determinante per la crescita della squadra. Io e lui poi ci trovavamo bene per caratteristiche e si instaurò subito un bel rapporto anche fuori dal campo. Un gruppo molto unito, una società seria e una stagione culminata con la meritata promozione festeggiata con il classico lancio di maglie ai nostri tifosi e con una bella cena allo stadio. Mi ha fatto molto piacere qualche anno dopo sentire un ragazzo di Anghiari dirmi “conservo ancora la tua maglia”. Restai anche il primo anno di Promozione concluso a ridosso delle big. Con la Baldaccio tra l’altro segnai un gol definito da molti “alla Van Basten”, a Poppi, nella stagione d’esordio in biancoverde: al volo quasi dalla linea di fondo, con la palla all’incrocio opposto. Senza voler fare assurdi paragoni, fu però un gol simile a quello siglato dal fuoriclasse olandese nella finale dell’Europeo 1988.
Dove hai giocato nei tuoi ultimi anni in categorie FIGC?
Mi avviavo verso i 40 anni, ma non volevo smettere, così continuai ancora qualche stagione. A Quarata vinsi il campionato di Seconda Categoria, poi passai alla Capresana sempre in Seconda e terminai nel 1999-2000, a 40 anni quindi, con il Santa Fiora in Terza Categoria segnando una decina di gol.
Nel 2000-2001 iniziò quindi la tua seconda vita calcistica, nell’amatoriale con il Gragnano. Continuando a segnare come se nulla fosse.
Mi chiamò Andrea Laurenzi che allora era allenatore e che ora è presidente del Gragnano, squadra che nei campionati amatoriali ha sempre fatto grandi cose. Anni bellissimi in quella che per me è stata una famiglia calcistica e della quale sono ancora dirigente. In quei 10 anni giocammo 13 volte allo Stadio di Arezzo, finali di Coppa e di play off vincendone 8 o 9. Mi sono trovato benissimo e ho continuato a segnare, andando più o meno sempre in doppia cifra. Un anno centrammo il successo nella Coppa Toscana e ci qualificammo per le finali di Pescara contro le rappresentanti di tutte le regioni italiane. Una competizione nazionale a livello amatoriale in cui giungemmo al 3° posto perdendo, anche per un po’ di sfortuna, in semifinale. Anche negli ultimi anni ho continuato ad allenarmi e a far parte di quel gruppo, andando in panchina se eravamo pochi. Pensa che l’ultimo gol l’ho segnato nel 2018, a 58 anni quindi, nel sentitissimo derby con il River.
Incredibile. Ci racconti come andò?
Ero andato in panchina per fare numero, ma a 5 minuti dalla fine entrai e segnai la rete della vittoria. Un gol alla mia maniera, ricevendo una palla filtrante dentro l’area e calciando di piatto forte al paletto. Fu grande festa ovviamente, perché il bello del calcio è proprio questo e regala emozioni in ogni contesto. Poi vincere un derby con mio gol a 58 anni, non è una cosa da poco. Ancora fino a quando non ci siamo dovuti fermare per l’emergenza sanitaria il sabato giocavo qualche volta con gli “over 40”, perché la passione è infinita.
Una curiosità ce la devi togliere prima di concludere. Perché ti chiamano “Quaglina”?
Una questione di famiglia. Chiamavano così mio nonno, che era bassino e grassottello. Lui era il “Quaglina”, mio babbo “il citto del Quaglina” e io da piccolo venivo soprannominato, come si dice al Borgo, “il Quaglina picino”. Con il passare degli anni sono poi diventato solo “Quaglina”. Una vera dinastia.
Ultima domanda. Quali sono state le tue armi migliori e cosa ha rappresentato il calcio per te?
Tecnicamente ero bravo con entrambi i piedi, ero veloce, ho sempre avuto tempi giusti negli inserimenti e nel trovare il gol. Fisicamente qualcosa mi è forse mancato, ma ho messo a frutto le mie qualità giocando tanti anni. In questo mi ha aiutato molto il fatto di non aver subito particolari infortuni. Il calcio mi ha dato tanto, è stato divertimento e amicizia, impegno e gioia. I valori che ho trovato in un campo o all’interno di uno spogliatoio sono gli stessi della quotidianità. Una palestra di vita si dice ed è proprio così. In carriera ho realizzato 250 gol circa in FIGC, oltre 100 nei campionati amatoriali e senza tirare quasi mai i rigori. All’inizio qualcuno ne calciai, ma dopo 4-5 errori dissi basta. Davanti al portiere ero di solito lucido e freddo, ma dagli undici metri a palla ferma no. Se avessi calciato anche i rigori avrei segnato più gol, però va bene così. Forse l’unico vero rammarico è avere perso quei possibili treni da giovane, ma sono soddisfatto e felice della mia avventura calcistica.
Dove non diversamente specificato, foto messe a disposizione da Aldo Giovagnini.