Padre d’amore, padre di fango è uno spettacolo al contempo semplice e complesso in cui la protagonista, Sara, racconta con il corpo, con la voce e con le immagini la storia di un’infanzia per nulla semplice, ma forse non completamente perduta. Il palco si divide a metà: la parte sinistra, che si illumina per prima, è occupata da molti strumenti e una ragazza che li suona con una loop station, seduta, senza mai alzarsi. Per tutto lo spettacolo sarà presente la sua musica, a volte solo strumentale, a volte anche cantata; altre volte la ragazza interagisce parlando con Sara, spesso seduta sulla scrivania alla destra del palco. Sara ci racconta parola dopo parola la sua storia fin da quando i suoi genitori si incontrarono, la madre mai conosciuta, la nascita “con la sindrome di astinenza neonatale” e paragona se stessa in fasce piangente ai fili d’erba che quando tagliati emettono un particolare odore: il cartoncino numero uno.
Cinzia Pietribiasi non solo ha scritto, diretto e interpretato lo spettacolo, ma ha coinvolto direttamente lo spettatore con un’esperienza sensoriale: insieme al profumiere Marco Ceravolo ha infatti creato cinque profumi per cinque luoghi, cinque momenti, cinque esperienze della vita di Sara, che poi è anche la sua. Si possono infatti estrarre dalle cinque bustine gli odori relativi alle vie, scritte a mano l’una dopo l’altra in un cartoncino impregnato, in cui l’attrice ci accompagna per ripercorrere con lei quei fili d’erba tagliati in un campo da calcio in Via Canal. Ci fa entrare in Via Milano, nell’appartamento della nonna che “sa di vecchio, di chiuso, di naftalina e di talco”, o nella macelleria bianco asettico di Via San Benedetto dove “l’odore di carne fresca, ossa tagliate e sangue è penetrante” e dove assiste alle litigate tra suo padre e sua nonna per i soldi con cui egli si dovrà comprare una dose. Il coinvolgimento del pubblico aumenta esponenzialmente grazie a un’altra parte importante della scenografia: l’intera parete di sfondo su cui vengono proiettate delle immagini in presa diretta tramite una piccola fotocamera che Sara muove a mostrarci una mappa e altri oggetti che si fanno metafora delle sue parole, tra cui lei, una paperella gialla. Ma Sara ci introduce anche dei filmati storici che spiegano il complesso periodo segnato tra le altre dalla caduta del muro di Berlino, dalla morte di Aldo Moro, dal rapimento di Fabrizio de André. E dalla tossicodipendenza del padre.
Il fulcro dello spettacolo può dirsi infatti il rapporto di Sara con il padre e di entrambi, in maniera ovviamente diversa, con l’eroina: lei che viene chiamata dagli altri bambini “la figlia del tossico”, lui che si buca in macchina e prova a disintossicarsi in un centro riabilitativo. Loro che si abbracciano quando il padre regala alla figlia il poster di Agassi. Lei che in un alto momento di pathos esprime la rabbia della solitudine, dell’ansia di diventare qualcuno, di essere diversa eppure se stessa, di un’ambizione sofferta nel desiderio di essere all’altezza di quell’idolo, Agassi, elevato a simbolo. E comincia a lanciare con rabbia tante, tantissime palline da tennis sul palco riprendendole e riscagliandole contro il pavimento tanto da farle cadere sulla platea. Ma questo spettacolo mostra anche un poi: la consapevolezza, la crescita, il perdono, la risoluzione, l’accettazione di un’infanzia difficile che culminano nell’abbraccio conclusivo delle due attrici, Cinzia e Giorgia Pietribiasi, mentre parte una canzone di sottofondo, di cui sentiamo solo le note. Ma sappiamo che le parole cantate da un figlio di quell’epoca, Giovanni Lindo Ferretti, sono: “curami, curami, curami, prendimi in cura da te”.