Tommaso Manenti ha 35 anni ed è di Sansepolcro. Si diploma al liceo scientifico “senza infamia né lode”, dice. Aspira all’insegnamento e questo lo porta ad iscriversi a Scienze naturali a Bologna, dove ottiene una laurea magistrale con Lode. Durante l’università si fidanza con Marta, anche lei di Sansepolcro, che diventerà sua moglie. Inizia a lavorare come insegnante presso la sede CEPU di Bologna accettando anche delle supplenze in scuole pubbliche in provincia di Arezzo. Dopo un’importante esperienza all’estero, in Danimarca, è tornato in Italia dove attualmente è responsabile ricerca e sviluppo per un’azienda di integratori alimentari, la Biokyma di Anghiari.
Cosa ti ha portato a trasferirti in Danimarca?
Gli incontri fatti durante il mio percorso di studio. Al Liceo ho avuto la fortuna di avere come insegnante di scienze la professoressa Mariella Bianconi. Ho ancora un ricordo molto nitido delle sue interrogazioni, ma anche delle sua preparazione e chiarezza nella spiegazione, ma forse la cosa che mi è tornata più utile è stata aver imparato da lei a prendere appunti e a sintetizzare schematicamente le cose che stavo studiando. Ritengo oggi che non esista una materia scolastica “brutta”, ma sicuramente la professoressa Bianconi mi ha fatto incuriosire per le scienze, determinando poi le mie scelte riguardanti il percorso di studio universitario che ho intrapreso. La preparazione acquisita durante gli anni del Liceo mi ha aiutato molto a percorrere agilmente sia la triennale che la specialistica. Qui è sbocciato il mio secondo amore, la genetica. La genetica unisce le leggi della matematica ai processi biologici; in modo molto logico e consequenziale, formulare ipotesi e poi avere la possibilità di testarle tramite modelli statistici mi ha subito divertito e incuriosito. Il secondo incontro, quello con il docente di Genetica e statistica, il professor Cavicchi di Bologna, è stato quello che mi ha portato in Danimarca. Ma non subito. Finito l’anno di tirocinio per la tesi nel laboratorio di Bologna, purtroppo il professore si è ritirato in pensione e il laboratorio è stato chiuso, o meglio, immediatamente preso da altri gruppi di ricerca. Ho provato in tutti i modi a rimanere dentro l’università per un dottorato di ricerca. In modo più o meno diretto, sicuramente poco meritocratico, ho capito che non ci sarebbe stato posto per me. Ho comunque tentato il concorso per una borsa di studio, da cui sono uscito sconfitto e molto amareggiato. Quel giorno ho deciso di chiudere con l’università. Tornato al piano iniziale di fare l’insegnante di scienze, ho iniziato ad accettare supplenze in provincia di Arezzo e a lavorare privatamente o presso la CEPU per riuscire a raggiungere un’indipendenza economica. Ho fatto l’insegnante per circa tre anni. Ero comunque rimasto in contatto con il professor Cavicchi, che continuava in maniera molto determinata a suggerirmi di provare ad andare all’estero e continuare con la ricerca, perché credeva potessi fare bene. Ad un certo punto però l’idea di andare all’estero, affrontare la grande sfida, ha superato la paura e la scomodità della partenza. Però non sapevo parlare l’inglese. Feci un colloquio tramite Skype con il gruppo di ricerca ad Aarhus, città danese di cui ignoravo completamente l’esistenza, con a fianco il prof. Cavicchi. Mi ricordo la figuraccia che feci perché non capivo assolutamente niente di quello che dicevano. Nonostante tutto, interessati alla tesi che avevo svolto, mi offrirono tre mesi di vitto e alloggio pagati duranti i quali avrei dovuto fare un piccolo progetto per loro. In questo modo potevo finalmente imparare l’inglese e loro potevano valutare la mia utilità nel loro progetto di ricerca. Partito con l’idea di stare tre mesi, sono rimasto sette anni.
Come hai vissuto in questo Paese conosciuto per la sua efficienza?
L’accoglienza insieme alla loro efficienza ha permesso in una mezza mattinata di risolvere tutte le pratiche burocratiche. La segretaria dell’università durante la pausa pranzo, vedendomi smarrito, mi ha accompagnato con la sua auto in Comune per aiutarmi a compilare i due moduli necessari per ottenere la Yellow card con il CPR number, un corrispondente del nostro codice fiscale. I primi sei mesi sono stati estremamente duri, più volte sono stato vicinissimo a mollare tutto e tornare a casa. Ero solo, mia moglie (ancora non eravamo sposati) proprio nel momento in cui dovevo partire ha dovuto rinunciare e rimanere in Italia per aiutare la sua famiglia in un momento particolarmente difficile per la malattia e poi la perdita del padre. Con calma, giorno dopo giorno, ho trovato la mia dimensione, ho lavorato duramente ottenendo un dottorato di ricerca in genetica e altri tre anni di contratto come ricercatore Post-doc. Nel 2015 sono stato il ricercatore PhD con il maggior numero di articoli pubblicati nel dipartimento di Genetica evoluzionistica. Il mio lavoro prevedeva spesso viaggi, ho anche vissuto qualche settimana negli Stati Uniti, in Francia, in Polonia e in Finlandia. I progetti di ricerca variavano da genetica evolutiva a genetica di conservazione di specie a rischio fino alla genetica applicata ad attività produttive legate alla zootecnia. Mia moglie mi ha raggiunto in modo definitivo dopo circa tre anni e abbiamo acquistato casa ad Aarhus, e in quella città nel 2017 è nato nostro figlio, Jacopo.
Perché sei tornato in Valtiberina?
Per motivi familiari. Personalmente stavo molto bene in Danimarca. Certo mancavano molto gli amici, la famiglia e poi, anche se può sembrare stupido, mi mancavano piccole cose come le nostre montagne, i nostri boschi, i giri in bici e le passeggiate, il calcetto con gli amici. Lo stipendio era molto buono e il lavoro c’era, avevo la possibilità molto concreta di rimanere su. Mia moglie, avendo studiato matematica con l’idea di insegnare, non è mai riuscita a trovare un lavoro interessante e idoneo al suo percorso di studi. Ha sempre lavorato, adattandosi a quello che trovava, impegnandosi a renderlo decente, ma con grosse difficoltà. Alla fine ho visto che qualcosa le mancava e giorno dopo giorno stava minando la sua felicità, cosi abbiamo deciso di tornare in Valtiberina. Il ritorno, come la partenza, è stato improvviso. Quando è nato Jacopo, a febbraio 2017, la Danimarca mi ha offerto la possibilità di poter tornare a Sansepolcro per 4 mesi, pagato dalla disoccupazione danese, per svolgere un tirocinio in un’azienda. Dopo aver bussato ad altre porte, un venerdì mattina scrissi un’email a Luca Cornioli, amministratore dei Laboratori Biokyma. Mi rispose subito e nel pomeriggio ci incontrammo. Accettò con entusiasmo l’idea di collaborare e il lunedì successivo iniziai il tirocinio. Purtroppo però mi avvertì che facilmente non ci sarebbe stata la possibilità di assumermi, pur dicendosi dispiaciuto perché il mio curriculum era di livello. Feci un buon lavoro e riuscii a mostrare le mie potenzialità e possibilità per l’azienda, convincendolo della mia utilità. Dopo i quattro mesi ripartimmo per la Danimarca ma rimanendo in accordo con l’amministratore che qualora avessi deciso di tornare, avrei potuto contare su di loro. Mia moglie era sempre più insoddisfatta e a gennaio, alla terza chiamata per una supplenza, è rientrata in Italia. Ha ricevuto l’email un giovedì pomeriggio, con l’obbligo di presentarsi in classe il lunedi. Dovendo organizzare in due giorni il rientro dopo sette anni in Danimarca e con un bambino di meno di un anno.
Che vantaggi ci sono per un italiano che decide di tornare in Italia?
L’agevolazione fiscale per il rientro in Italia è interessante. Come ricercatore, secondo il piano per il “ritorno dei cervelli in fuga” ho il diritto ad un’esenzione IRPEF del 90% per l’anno in corso più altri tre anni fiscali. Per i lavoratori che hanno lavorato all’estero e iscritti all’AIRE per almeno quattro anni la detrazione è del 50% per 4 o 5 anni. In termini monetari la detrazione porta a circa 200-300 euro in più nella busta paga. Chiaramente non è il motivo principale per cui uno decide di tornare, ma questi soldi sono un valido aiuto.
Saresti pronto a partire di nuovo?
Bella domanda. Ci sono degli aspetti positivi sia nel rimanere a Sansepolcro che nel partire. L’adrenalina, il dover affrontare le sfide giornaliere, la soddisfazione nel riuscire a creare qualcosa dal niente mi mancano. Dall’altra parte mi reputo molto fortunato, il lavoro ad Anghiari mi piace molto, è stimolante e, dopo il trauma iniziale legato al passaggio università-azienda, sono molto soddisfatto. Mia moglie sta con pazienza e determinazione lottando con le unghie per la cattedra fissa, e avere intorno amici e familiari aiuta molto. Penso che non ripartiremo.
Consiglieresti ad un giovane di fare un’esperienza di vita o di lavoro all’estero?
Assolutamente sì. Un’esperienza di studio o lavoro all’estero è sicuramente molto utile per tutta una serie di motivi. Il primo, imparare a conoscere cose e persone diverse da noi, culture e tradizioni, la vita di tutti i giorni. All’inizio sembrano cose troppo lontane e uno ha la tentazione di usare il proprio punto di vista come metro di giudizio, poi con il tempo impari quanto la differenza sia bella e preziosa, e quanto in realtà siamo tutti estremamente identici. Secondo me questa è la ricchezza più grande che ho riportato a casa da questa esperienza. Poi, imparare bene la lingua, abilità sempre più richiesta in azienda. Oggi il 70% del mio lavoro è in lingua inglese. Terzo motivo, imparare a lavorare in modo pratico. In Danimarca ad esempio capita spesso di lavorare a livello di gruppi, non individualmente. La capacità di coordinarsi e collaborare con i colleghi non è cosi scontata. E infine sapere di essere soli e di dover contare solo sulle proprie forze. Questo mi ha aiutato ad avere una maggior consapevolezza di quello che posso fare, e allo stesso tempo mi ha insegnato a chiedere e a ricevere aiuto dalle persone che avevo intorno.
In particolare, la mia esperienza all’estero è legata al mondo universitario e con orgoglio posso dire che, dovunque sono stato, i ricercatori italiani sono apprezzati e ritenuti molto validi. Ritengo questo legato alla preparazione che il sistema scolastico italiano ci offre. Confrontandomi con i colleghi provenienti da altre parti del mondo mi sono accorto di avere una conoscenza (teorica) decisamente più approfondita in chimica, fisica, e matematica. Conoscenze che mi porto dietro forse più dalla serietà della preparazione avuta durante gli studi al Liceo scientifico di Sansepolcro, pur non essendo uno degli studenti più brillanti, che dal percorso universitario. Ho avuto il coraggio di provare e partire. Poi la determinazione mi ha aiutato ad andare avanti e ottenere risultati molto soddisfacenti. Ripensando a cosa potevo aver fatto meglio, consiglio ai giovani studenti di studiare in Italia sia la triennale che la specialistica, mentre la tesi, biglietto da visita fondamentale, suggerisco di farla all’estero, sia per acquisire competenze pratiche, sia per la lingua, sia per farsi conoscere ed eventualmente rimanere per continuare con la ricerca.