Per affrontare il tema della guerra in corso in Ucraina abbiamo incontrato Leonardo Magnani, da sempre anima dell’Associazione Cultura della Pace. Magnani ha illustrato un approccio alla questione, quello nonviolento, che si contrappone alle tendenze belliciste che prevalgono nella retorica utilizzata in questi difficili giorni dai mezzi di comunicazione e dalle forze politiche. L’analisi parte dalla premessa secondo cui “a seguito dell’invasione della Russia sull’Ucraina siamo di fronte a una contravvenzione del diritto internazionale, dei diritti dell’uomo e dell’infante. Questo costituisce un fatto oggettivo che va condannato con convinzione. Per risolvere una catastrofe – puntualizza il nostro interlocutore – bisogna però sempre andare a capirne le ragioni, che non significa giustificare, ma significa evitare che questa catastrofe continui ed evitare che se ne verifichino di nuove”. Questo è del resto il compito di un’associazione culturale: “Bisogna cercare di comprendere, sennò si fa il tifo ma non risolviamo niente”.
Questo tentativo di comprensione parte dalla constatazione che “ci sono tante concause”. A partire dalla fine dell’Unione Sovietica, quando “il mondo russo è uscito da un isolamento oggettivo e aveva avuto delle garanzie, come il no all’allargamento della Nato”, un’organizzazione che “sciolto il Patto di Varsavia ha cessato di avere un compito difensivo”. Invece “la Nato si è allargata da 16 a 30 membri, andando anche a toccare la parte più pericolosa che sono le Repubbliche Baltiche”. Altro elemento di grande tensione è stata “la non volontà di mantenere una separazione di ruolo politico tra Nato e Unione Europea”, così come “il fatto che l’Onu è depotenziato, perché ancora esiste il diritto di veto e perché in tutti questi anni dopo la fine della contrapposizione tra Est e Ovest non è stato fatto nulla per andare verso l’ipotesi di un esercito sovranazionale che agisca come corpo di polizia internazionale. Non è una proposta gandiana, ma è una base per togliere l’esercito di parte che vede il nemico; la polizia ha il nemico come elemento congiunturale, l’esercito come elemento strutturale, quindi se ci sono le guerre è perché ci sono gli eserciti, e se noi militarizziamo e spendiamo le guerre ci saranno sempre”.
Un ulteriore aspetto critico è proprio quello delle spese militari: “Negli ultimi 20 anni sono raddoppiate, e le ha aumentate anche l’Italia. Qualcuno pensa che sia convenientissimo per il nostro Paese, ma in realtà il settore vale meno dell’1% del pil, l’esportazione è meno dello 0,7% e l’occupazione meno dello 0,4% dell’industria italiana. Invece i privati dal traffico di armi hanno ottenuto un guadagno che in questi 20 anni è aumentato dell’872%. È evidente che dove circolano armi circola guadagno, ma per il privato, non per il sistema Paese, quindi la demilitarizzazione è auspicabile perché ha un impatto economico assolutamente superabile e perché riduce le tensioni: se io armo i Paesi poi non mi posso stupire se le armi alla fine vengono usate”. Oltretutto “nessuno ricorda che nel 2019 Trump ha annullato l’accordo Usa-Urss del 1987 che vieta i missili a lungo raggio, mettendo a rischio l’intera Europa”. A questo si unisce il fatto che “Putin non lo scopriamo adesso, ma quando bombardava l’Isis oppure quando è intervenuto con la Turchia in Libia sono stati tutti zitti e solo ora si sono accorti che ci potevano essere dei problemi”.
Insomma, per Magnani “la guerra non è una calamità naturale, siamo alla guerra perché ci siamo voluti andare. Il famoso proverbio Si vis pacem, para bellum è profondamente sbagliato: al contrario, se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace”. Oggi cosa possiamo fare? “Intanto una cultura di pace si basa sulla cultura della democrazia, Capitini parlava addirittura di omnicrazia, il potere di tutti; quindi vanno create le condizioni per un aumento delle voci in Russia e in Ucraina, dando per esempio spazio ai movimenti nonviolenti che esistono in quei Paesi”. Si dovrebbero poi “invitare i Paesi più vicini alla Russia, quelli che in sede Onu si sono astenuti sull’aggressione all’Ucraina, a fare da mediatori. Bisogna fare l’esatto opposto di quello che si sta facendo: se isoliamo l’aggressore lo manteniamo sempre in quel ruolo, invece va inserito all’interno di un contesto internazionale nel quale ci si mette a tavolino e si discute”. Ancora, “c’è un trattato internazionale per la proibizione delle armi nucleari e da gennaio 2021 ancora l’Italia non l’ha firmato. Va poi messo in pratica il trattato sul commercio delle armi, da noi tradito: l’Italia per esempio nel 2015 ha venduto armi alla Russia, contro il diritto internazionale. È poi necessario fare tutto il possibile perché un Paese non si senta accerchiato. Anche la percezione che ha un Paese è un problema e va affrontato, per esempio creando una zona cuscinetto. Non è una cosa così strana, l’Austria non è nella Nato, così come la Finlandia: sono punti di riferimento da prendere in considerazione in un’eventuale trattativa”.
Tutto questo significa andare nella direzione di una cultura di pace: “Che non è buonismo – puntualizza il nostro interlocutore – ma è il modo per risolvere un conflitto senza che esistano vincitori, ma persone convinte che vincono insieme”. Analogamente, “la nonviolenza non è andare in piazza con le bandiere della pace: quella è una testimonianza e ben venga”. Ma la nonviolenza è soprattutto “un valore che inserisci in un contesto di violenza e che la interrompe”. Per esempio “abbiamo avuto notizia di carristi russi che subito dopo la frontiera si sono fermati riconoscendo negli ucraini persone del proprio mondo. Questi elementi di rifiuto della violenza nell’esercito russo ci sono, esiste una coscienza russa che non può essere equiparata all’ordine di fare la guerra, così come esiste una coscienza ucraina che non può essere equiparata ai movimenti neonazisti”.
Ma invece di valorizzare questi aspetti, prevale un approccio diverso: “Anche nel nostro Paese la vecchia propaganda bellicista ha molto più spazio di messaggi nuovi: invece di dare voce ai movimenti nonviolenti si pubblicizzano l’eroismo militare e le posizioni nazionaliste, si semplifica rifiutando di approfondire un discorso che è invece complesso. Anche in televisione non viene invitato quasi mai chi in questi anni ha messo in guardia sui rischi a cui si andava incontro rispetto a Putin, all’allargamento della Nato, alla necessità di autonomia del Donbass. Ci si deve chiedere per esempio perché i media si siano disinteressati di quello che è accaduto negli ultimi 8 anni in Ucraina, dove non si è avuto questo grande esempio di democrazia”.
E invece “negli ultimi giorni in Occidente si è creata una tale cultura di guerra per cui l’invio di armi, che dovrebbe lasciare assolutamente interdetti, viene invece accolto come una cosa scontata. Ma a cosa servono queste armi, se non a rischiare di fomentare la violenza anziché andare verso una de-escalation? Ecco allora l’utilità di un corpo di polizia sovranazionale che può fare da interposizione, in modo che i litiganti prima di tutto vengano divisi”.
“Bisogna creare nelle persone – esorta Magnani – la consapevolezza che esiste un paradigma da realizzare diverso rispetto a quelli provati finora e che non hanno dato esiti positivi. Negli ultimi 20 anni, con il raddoppio delle spese militari, gli eventi bellici anziché diminuire sono aumentati. Anche perché se si prepara la guerra, la guerra prima o poi si fa, ci sarà sempre il nemico di turno. Basti pensare a Bin Laden: nel 2001 abbiamo iniziato con Bin Laden insieme ai Talebani e oggi abbiamo di nuovo i Talebani, anche se senza Bin Laden. Se non ricominciamo a creare un tessuto di relazioni internazionali, dopo Putin verrà un altro peggiore di Putin”. D’altra parte “Putin e Biden sono due leader, uno di 70 e l’altro di 80 anni, che hanno una visione del mondo vecchia e paradigmi vecchi per risolvere le questioni. Bisogna invece aiutare l’opinione pubblica a cercare di andare incontro alle popolazioni e far mettere a tavolino le forze, altrimenti il rischio di un cosiddetto scontro di civiltà si avvicina, e non so quanto sia possibile con le armi atomiche”.
In definitiva, “entrambi i contendenti dovranno cedere qualcosa”. Una posizione rispetto a cui “ci potrà essere una persona dell’Ucraina che si offende, ma l’obiettivo è proprio quello che le persone in Ucraina non soffrano e che un bambino non si veda schiaffato a Sansepolcro mentre il padre va al fronte”. Siamo ancora in tempo a fare qualcosa? “Sì, soprattutto se noi occidentali, che ci consideriamo i buoni, lo siamo fino in fondo e riconosciamo che nelle nostre buone azioni forse c’è stata qualche falla. Se raggiungiamo questa consapevolezza forse siamo ancora in tempo a rimediare”.