Parlare di ottava rima per me è come tornare nella culla, o quasi. Dacché io mi ricordi, e i miei primi ricordi risalgono intorno ai tre anni d’età, mia madre, per addormentarmi, invece delle solite nenie, mi cantava pezzi di ottava che aveva ascoltato e imparato nelle veglie che si svolgevano nella fattoria del mio nonno materno, prima e dopo la seconda guerra. In tal modo sono stato allevato al suono di contrasti dei quali ancora ho ricordi smozzicati, come quello fra il padrone e il contadino: “Un contadino di questa pianura / disse al padrone che voleva andar via…” o quello fra il fiorentino e il casentinese che terminava così: “…Quei prosciutti, salami e quelle spalle / tra noi villani mangeremo insieme / tacchi, piccioni, galletti e pollastre / e te in Firenze mangerai le lastre!” Che lei, proveniente da famiglia contadina, recitava con malcelata soddisfazione.
Vaccinato dalla voce argentina della mia genitrice, il canto in ottava è rimasto sedimentato nella mia mente e forse è stato fra le cause che mi hanno portato ad occuparmi di musica fin dalla prima giovinezza. Una curiosità che si è in me risvegliata grazie all’amicizia con un collega di lavoro che ancor oggi pratica proficuamente l’improvvisazione poetica in ottava rima: Stefano Rossi.
Un poeta a braccio contemporaneo
Stefano Rossi abita a Fresciano, una frazione di Badia Tedalda, località che ha dato i natali ad Albertino Bastianoni, uno dei più grandi virtuosi della fisarmonica del secolo scorso, personaggio del quale questa pagina si è a suo tempo occupata con un articolo che potete trovare a questo link, quasi a confermare che l’aria buona di montagna fa il paio con la musicalità, di ogni tipo. Lo stesso Stefano proviene da una famiglia dove il cantare a braccio è sempre stato di casa. Racconta Rossi: “Mio nonno mi hanno detto che praticava il cantare in poesia, anche se non l’ho mai sentito esibirsi perché già anziano quando io ero piccolo, ma era soprattutto mio zio Corrado, fisarmonicista conosciuto in tutta la provincia perché titolare di un’orchestra, che cantava l’ottava in modo incredibile; io però ho iniziato senza quasi averlo ascoltato. All’età di dieci anni, in occasione di una ricorrenza che c’era a Badia Tedalda, chiesero chi volesse provare a cantare in ottava rima; io non sapevo cosa fosse, ma salii lo stesso sul palco, ero il più piccolo ma me la cavai abbastanza bene, così cominciai ad interessarmi alla cosa. Fin da allora mi sono destreggiato con la metrica, così adesso non ho bisogno di pensare all’impostazione delle parole; le rime mi vengono spontanee e il mio stile di canto è personale. In seguito, sentito il modo di cantare di mio zio, mi sono vergognato delle mie interpretazioni perché, come afferma mio padre, dava alle strofe un’aria, uno stile una musicalità tutta particolare negli accenti. Allora mi sono chiesto: se sento cantare mio zio in un certo modo sarò in grado di imitarlo; così l’ho registrato e ho ripetutamente ascoltato le sue performances: niente da fare! Ho capito che ogni cantante di ottava mette il proprio animo nelle interpretazioni; non ce n’è uno simile all’altro”.
Come si inventa un’ottava: tecnica di poesia a braccio
“Per quel che riguarda la mia costruzione dell’ottava”, spiega Stefano, “io, già dall’inizio, ho in mente l’ultima strofa, quella che alcuni definiscono stangata e altri martellata, ed è lì che voglio andare a parare; il resto me lo costruisco via via che sento dove il mio avversario andrà a concludere l’ultima parte del suo intervento. Nell’ottava le prime sei strofe sono alternate mentre le ultime due sono in rima baciata quindi ho tempo di pensare a come iniziare la mia risposta appena sento come cade la penultima strofa. Posso pensare alla cosiddetta stangata, quella che declamerò negli ultimi due endecasillabi, mentre l’avversario canta le sue strofe e poi concentrarmi sull’inizio della risposta il cui primo verso, e di conseguenza il terzo e il quinto, devono essere in rima con la sua chiusura”
L’ottava rima, come illustrato da Stefano, è infatti composta da sei strofe in rima alternata e dalle ultime due che terminano con lo stesso suffisso, tutte declamate in endecasillabi, cioè composte da undici sillabe. Stefano è così capace di inventare strofe e situazioni che, magari durante una riunione conviviale, è in grado di appuntarsi in foglietti volanti, appena prima di iniziare il contrasto, entrambe le parti che devono scambiarsi i due contendenti, sia quella di opponente (cioè colui che inizia il duello) che quella di rispondente (vale a dire colui che è sfidato). Questo porta a volte il suo partner a dover fare degli autentici sforzi di lettura, dal momento che (e questo lo dico per esperienza personale e lo riconosce lui stesso) la grafia del nostro è a tratti illeggibile. Per quanto riguarda lo svolgimento del contrasto, entrambi i contendenti iniziano con i saluti e i ringraziamenti al pubblico presente; il duello a suon di rime endecasillabe si conclude con la dichiarazione di amicizia fra i due, malgrado tutto quello che si sono cantati fino a quel momento.
“Il cantare in poesia”, puntualizza Stefano, “secondo me nasce dalla tradizione di tramandare le storie in modo orale, dal trovarsi la sera a veglia, stare tutti assieme fra cibo, giochi di carte, racconti e poesie, alcune delle quali erano trasmesse di generazione in generazione, con la passione della conoscenza empirica della metrica per la costruzione di una poesia; e i più dotati a trasmettere messaggi riuscivano a creare storie che rimanevano nel tempo. Quel che più contava era la battuta simpatica, il cogliere aspetti sotto gli occhi di tutti ma inosservati dai più. Il bersaglio principale anche durante il ventennio era il potere costituito, i padroni ai quali non veniva perdonato niente, perché era un po’ come avere una rivincita sui soprusi ai quali erano sottoposti i contadini. Da un lato non è che i padroni amassero venire sbeffeggiati, ma lo tolleravano perché in fondo l’ottava rappresentava allora quella che oggi è la satira e il potere talvolta ci si crogiola. Altro bersaglio classico era il clero, con le contraddizioni che venivano notate fra predicazione e comportamenti dei prelati”. A proposito di rime riguardanti il sacro, Stefano mi racconta un aneddoto su un suo compaesano che negli anni ’50 compose una poesia sulla messa: “Il personaggio, molto bravo a cantare l’ottava rima, ma ai tempi si diceva cantare in poesia, si chiamava Tamirro Vergni, nome da artista, ma tutti lo chiamavano Miro; come altri da queste parti non aveva un grandissimo “feeling” con quel che riguardava la chiesa e il clero. In quel periodo, eravamo alla metà del secolo scorso, i cantori a braccio si esibivano spesso all’osteria, magari dopo aver giocato a carte e aver bevuto un po’ di vino, soprattutto nei pomeriggi domenicali; al mattino dello stesso giorno festivo c’era invece la messa a cui partecipavano tutti; tutti tranne lui. Una mattina gli venne il ghiribizzo di varcare la soglia della chiesa durante la funzione, così nel pomeriggio, all’osteria, mise in poesia cantata questa esperienza per lui nuova. L’ottava iniziava così: Sento l’ultimo tocco di campana / la gente dice l’ultimo ha suonato / ed in cammino verso la via piana / Finalmente alla chiesa so’ arrivato / Da principio mi metto lì alla mana (alla destra della porta) / Accanto all’acqua santa accanto al vaso / Ognuno che veniva lì a intufare / Da capo a piedi mi sentia bagnare / Dissi sono venuto per pregare / e mi rassegno di non far petoie (chiacchiere, lagnanze) / Il sacerdote cominciò a sbracciare / Segni di Croce con le copertoie (coperchi; si riferisce probabilmente al calice ed al piattino utilizzato per la comunione). Purtroppo”, tiene a precisare Stefano, “non essendo stato ritrovato alcuno scritto riguardo queste ottave, posso solo ricostruire la situazione attraverso frammenti che sono rimasti nella mente di chi ha a suo tempo ascoltato il motivo. Fra gli spezzoni recuperati ci sono rime come questa… Sono venuto per non fare a botte / Mi rannicchiai dietro l’asso di coppe… (così è descritto il fonte battesimale). Il finale sfiora la blasfemia dal momento che in alcuni tratti così recita: …tosse e starnuti che facea terrore… E più avanti: …Triste linguaggio parlan le mutande / Mortificato resta il lavatoio / Questi discorsi ho inteso in altre bande / Fra le vacche e i suini… (vivida descrizione di rumori corporali non esattamente edificanti)”.
Il cantare in rima come esperienza etnomusicale
Non si pensi che quella riferitami da Stefano sia un’eccezione; il cantar poesia nello stile toscano si avvale dello sberleffo, dell’ironia e della satira irriverente che contraddistingue gli abitanti della regione. Ben se ne è accorto a suo tempo anche un personaggio come Marco Müller, dal 2004 al 2011 direttore artistico della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e dal 2012 al 2014 del Festival internazionale del Film di Roma, che in gioventù, alla fine degli anni ’60, studente di etnomusicologia, percorreva le campagne del viterbese per ascoltare i contrasti fra cantori in ottava rima. L’ottava si canta oltre che in tutta la Toscana anche nell’alto Lazio e nell’Abruzzo, ma il timbro laziale risulta gentile, più vicino allo stornello romanesco che alla ruvida, potente interpretazione toscana, mentre quello abruzzese si avvale troppo spesso del dialetto. Essendosi imbattuto in Edilio Romanelli, aretino di La Pace, che ai tempi si era trasferito a Roma, di professione venditore ambulante (un’occupazione abbastanza comune fra i cantori dell’ottava; lui, Gino Ceccherini, Elio Piccardi, il Calamita ed altri, nelle fiere e nei mercati, sfruttavano la loro maestria per attrarre clienti alle loro bancarelle), il ricercatore era rimasto stupito da come nel cantore toscano “…ci fosse la capacità di far emergere tra le righe dell’ottava spunti sociali e di satira politica anche quando il soggetto pareva non prestarsi ad un’utilizzazione in tal senso: nel suo caso era difficile accorgersi che il tema era stato forzato tanto era sapientemente dosata la costruzione non solo formale: una cosa che in lui mi ha sempre sorpreso”, ha affermato in seguito l’allora giovane studioso, che così concludeva: “È che riesce, nella maggioranza dei casi, a curare anche il ritmo e gli accenti sul piano del contenuto”. L’etnomusicologo, abituato com’era ad ascoltare temi classici “moglie e marito”,”l’acqua e il vino”,”la lepre e il cacciatore”, per non parlare di quelli mitologici, era rimasto incantato dalla capacità di portare il discorso poetico su argomenti sociali riguardanti il momento, oltre che dalla fluidità del linguaggio e dalle invenzioni linguistiche del cantante. “Approfittando del sorteggio di un tema un po’ più ‘contemporaneo’ del solito, Edilio aveva tirato fuori lo scontento dei cittadini per i provvedimenti economici del governo e trionfalmente concluso: “e così han gabbato i cittadini / dal decreto si faccia i decretini”.
Da questo primo incontro nacque fra i due una collaborazione decennale attraverso interviste, anche riprese in video, e nel 1980 Müller scrisse la prefazione al libro di Romanelli: “400 poeti improvvisatori toscani, laziali, abruzzesi”, un monumentale poema composto da oltre quattrocento ottave con rime che riguardavano oltre lui stesso (Ripenso a quando è che mi resi audace / avevo dodici anni solamente / nella località detta La Pace / è festa, radunata è molta gente…) anche di molti colleghi della sua epoca e precedenti, con i quali aveva duellato in poesia dedicando a quasi tutti sonetti in ottava. Tanto per citarne qualcuno delle nostre zone ricorderò Ilare Vertigine di Sansepolcro (“Altro collega ch’abita ai confini / della città che diè i natali a Piero / è appassionato fra i più genuini / cantanti e creatori di pensiero...), Oreste Vagnetti anghiarese (Un comico del canto un dì incontrai / nacque ad Anghiari viveva a Settimello / più volte in varie gare lo trovai / ben duellava col suo ritornello…) Sempre da Anghiari è citato Giuseppe Puleri (Una persona di pensieri assorta / alla ricerca è il cantator Puleri / costui non segue mai la strada torta / perciò si fa ascoltare volentieri…) E ancora: Angiolo Forasiepi, negli anni ’60 sindaco di Monterchi (Un cantore che direi perfetto / il Forasiepi un uomo assai cortese / perciò per i suoi meriti fu eletto / sindaco beneamato del paese…) e Giusto Della Rina, ai tempi dirigente dell’azienda tabacchi di Fighille (Sosto a Fighille, dove il Della Rina / risiedeva a quel tempo, il buon collega / poeta colto, che con disciplina / a improvvisare, e con bel modo spiega...) A proposito del cantore aretino scrive lo stesso Müller: “Edilio Romanelli ha avuto un duplice merito: quello di dimostrare nella pratica (recandosi, ad esempio, a cantare la storia e gli ideali di una lotta con le sue ottave improvvisate proprio nel momento e nel luogo dove essa si stava svolgendo: occupazioni di fabbrica, manifestazioni politiche, ecc.) che le strutture convenzionali dell’ottava potevano prestarsi a qualsiasi attualizzazione dei contenuti; il secondo è stato quello di contribuire in modo decisivo alla riforma dall’interno dell’ottava, fornendo supporti ad una sua modernizzazione (e politicizzazione) coll’inventare nuove formule, sovente mutuate dalla lingua di tutti i giorni”. La lezione di Edilio , scomparso nel 1996, non è rimasta inascoltata; oggi anche nell’alto Lazio il canto si è evoluto in senso sociale e politico, basti ascoltare le ottave sul COVID composte nel 2020 e cantate in Internet da Stefano Prati, ai tempi giovane contraddittore del Romanelli in numerosi contrasti, oggi considerato uno dei più seguiti poeti a braccio del Lazio.
L’ottava dei famosi
Marco Müller non è stato l’unico personaggio noto ad occuparsi dell’ottava rima. Lunghissima è la lista di ricercatori che si sono cimentati col tentativo di dare al canto a braccio una connotazione teorica, alla ricerca dei tratti costitutivi attivati durante la messa in atto di questa arte verbale, avvalendosi ognuno di loro di considerazioni a volte contrastanti; ma l’ottava, più che ascoltata e vivisezionata, va introiettata, praticata fin da giovanissimi, perché, se la capacità di inventare rime può essere dono di natura al di là di ogni connotazione sociale e territoriale, eseguirle con quel modo di cantare è peculiare espressione della specificità culturale delle zone di provenienza.
La storia che segue è l’esempio lampante di quanto affermato sopra. Oltre quarant’anni fa nell’Osteria da Vito, quartiere San Vitale di Bologna, covo storico dei musicisti felsinei, ci fu un incontro tra Francesco Guccini e Umberto Eco. Il cantautore viveva già a Pavana, nell’Appennino pistoiese, non lontano da Pian degli Ontani luogo di provenienza di Beatrice Bugelli, conosciuta come Beatrice di Pian degli Ontani, pastora analfabeta, la più grande poetessa-cantante dell’ottava rima di tutto il 1800. Guccini si era da tempo avvicinato al cantare in poesia e ben presto aveva trasmesso questa sua passione al semiologo alessandrino, coinvolgendo anche un giovane Roberto Benigni. Al professore piacque molto l’improvvisazione poetica che prese come una specie di gioco della mente. Afferma Guccini: “Eco era imbattibile, ovviamente. Ma io me la cavicchiavo, lo mettevo in difficoltà. Benigni, invece, finiva che la buttava sul volgare”. A sua volta Benigni, pur riconoscendo la superiorità di Eco come rimatore, ne metteva in dubbio le capacità canore. Il fatto è che l’ottava si regge insieme sulle rime e sul canto, eseguito a cappella, codificato da moduli e formule convenzionali ereditate, come abbiamo rilevato, dall’appartenenza ad un preciso contesto culturale, non fini a se stesse ma indispensabili a creare il pathos, in attesa della cosiddetta martellata finale e, nell’esposizione, hanno anche una finalità pratica. La peculiare interpretazione della poesia cantata è stata presa in esame dai musicologi alla ricerca della chiave interpretativa senza tener nel dovuto conto la praticità campagnola. Fra le caratteristiche del canto, il gorgheggio serve, ad esempio, a prendere più tempo per impostare le rime, mentre le ultime due, quelle baciate, eseguite spesso velocemente, oltre che dare enfasi al momento culminante dell’ottava, sono utili anche per concedere meno tempo all’avversario per pensare alla rima con la quale riprendere il contrasto. Eco, originario del Piemonte, per quanto eccelso rimatore, aveva chiavi culturali diverse per riuscire ad immergersi completamente nel contesto (e opiniamo non fosse molto dotato dal punto di vista vocale).
Roberto Benigni ha fatto spesso incursioni di ogni tipo nell’ottava, sia televisive che presenziando a numerosi contrasti in pubblico. Ancora si ricorda la sua partecipazione ad una di queste riunioni ad Anghiari nei primi anni ottanta. Guccini e Benigni hanno “duellato” spesso negli anni ottanta con Edilio Romanelli. In particolare si ricorda una trasmissione di RAI 2 del 1981, Telepatria International, condotta Renzo Arbore, che vide protagonisti Guccini e (soprattutto) Romanelli, insieme ad altri poeti a braccio, confrontarsi sul tema dell’Italia. Una breve apparizione, sicuramente fuori contesto, ben lontana dall’habitat naturale nel quale si esibivano i poeti improvvisatori. Resta comunque una testimonianza delle qualità canore del poeta a braccio aretino.
Altro personaggio famoso che si è speso per continuare la tradizione dell’ottava facendola evolvere e conoscere alle nuove generazioni è David Riondino. Nel 2006, dalla voglia di riunire tanti eventi sparsi sul territorio e dedicati all’ottava, nasce “L’ottava – Accademia della letteratura orale“, promossa dallo stesso Riondino e realizzata dall’Associazione culturale Giano con il patrocinio e il sostegno della Regione Toscana e della Fondazione Monte dei Paschi di Siena. Poeti estemporanei, musicisti, critici letterari e docenti universitari hanno partecipato alla realizzazione di una vera e propria ‘scuola’ di ottava rima, che ha alternato seminari, incontri interdisciplinari e lezioni nelle scuole medie con eventi in locande e piazze e con laboratori per la realizzazione di un vero e proprio spettacolo prodotto in collaborazione con il festival ‘All’improvviso’ di Gavorrano, in provincia di Grosseto. A proposito di questa sua creazione scrive oggi uno sconfortato ma tenace Riondino: “Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, trascinando via anche molte risorse. Malgrado questo, con risorse esclusivamente private, procediamo con il lavoro”. Tanto per restare nel nostro territorio, l’iniziativa dell’Accademia ha comunque contribuito alla nascita a Terranuova Bracciolini di una vera e propria Scuola di Interpretazione poetica e l’università di Arezzo ospita, presso il dipartimento di Antropologia, corsi sull’argomento, cosa che ha generato diverse tesi di laurea sul cantare a braccio. Di tutte voglio citare quella della senese Elisabetta Lanfredini, conseguita nel 2008 presso il DAMS di Bologna. Lei, oggi affermata etnomusicologa ed insegnante di canto, che vive tra Berlino, Istanbul e Roma, continua ad occuparsi degli aspetti sociali e politici del canto in ottava rima con particolare riferimento al cantar maggio, in Maremma. “Il Primo Maggio in Maremma”, ha scritto di recente la ricercatrice, “è più importante del Natale. Sono due secoli che squadre di gente colorata e fiorita passa di podere in podere augurando prosperità, felicità e unione parlando e cantando della situazione sociale e politica e offrendo uno sguardo critico sul mondo. Il ruolo sociale di questa gente è più importante di quanto alcuni di loro possano realizzare. Si canta in rima anche, tanto, le ottave scorrono dalle voci forti dei poeti e riecheggiano nelle campagne con parole di unione, critica e amore”. Il cantar maggio, una volta diffuso in tutta la Toscana, è composto oltre che dalla classica ottava, anche da momenti corali con accompagnamento strumentale.
Dalla storia all’attualità
Senza riandare ai Fescennini etruschi del VII secolo avanti Cristo (per quanto la zona di diffusione dell’ottava ricalchi grosso modo quella abitata dall’antica popolazione), senza ricollegarsi ai trovatori occitani che sembra siano stati i primi a cantare rime costruite come l’ottava, senza tirare in ballo Giovanni Boccaccio con il Filostrato e il Carmine Fiesolano, si può affermare che la fortuna del poetar cantando abbia alla base l’analfabetismo, con conseguente struttura delle relazioni tra le persone basata sulla memoria e sull’esempio dei padri. La commistione fra la cultura colta e quella popolare, già verificatasi ai tempi di Dante, la cui Divina Commedia era stata studiata dai letterati e, nel contempo, recitata a memoria dal popolino, è avvenuta per l’ultima volta durante il Rinascimento, quando opere in ottava rima di poeti come il Pulci, il Boiardo, l’Ariosto e il Tasso venivano magari recitate nelle piazze dagli attori della commedia dell’arte, oppure ascoltate declamare da quei pochi che sapevano leggere, e di conseguenza mandate a memoria dal pubblico illetterato. Il successivo divorzio tra intellettuali e popolo avrebbe però reciso per sempre la possibilità di una comunicazione culturale autentica tra gli estremi opposti dell’ambito sociale. Questa cesura ha portato le isolate comunità contadine collinari e montane ad elaborare una evoluzione originale di quanto appreso oralmente (qualcosa di simile si è verificato in Sicilia con il teatro dei pupi). Ancor oggi il tema epico-cavalleresco fa parte del repertorio dell’ottava. D’altronde il mandare a memoria era una necessità per chi, non essendo letterato, doveva tenere la mente in esercizio per ricordare ogni cosa: da quanti animali possedeva, alla quantità di prodotti dovuti al padrone, fin a quelle cose che servivano a distrarre la mente dai problemi quotidiani. L’ottava rima affonda le proprie radici in questo antico mondo agricolo-pastorale. La sera, conclusa la faticosa giornata di lavoro, i montanari si riunivano nelle aie, nei cortili o nelle osterie per trascorrere alcune ore di svago. Alcuni di essi si dilettavano, fino a notte fonda, nel cantare poesie in ottava rima; gli argomenti erano (e sono tutt’oggi) svariati: religioso, familiare, amoroso, burlesco, sociale, politico, guerresco, naturale ecc., trattati con arguzia e vivacità tutte campagnole.
Oggi, al di là dei contrasti organizzati che si tengono in spazi pubblici e privati, dove sono gli spettatori a decidere i vari temi sui quali i cantori dovranno improvvisare, è in contesti spontanei che si perpetua la più genuina tradizione dell’ottava. In tal caso infatti l’etica del contrasto coincide con vita e frequentazioni del poeta e gli argomenti della poesia a braccio assumono un ruolo sociale di appartenenza che il pubblico dei contrasti organizzati, certamente appassionato ma meno coinvolto rispetto al contesto, può fornire solo se condivisi dal poeta-cantore. Come mi riferisce Stefano: “All’interno della comunità gli argomenti più trattati riguardano cose che conoscono tutti e vanno da difetti fisici e caratteriali dei due contrastanti, a storie di paese anche boccaccesche, meglio se riguardanti personaggi in vista del posto, il tutto fatto con leggerezza e in allegria: una forma d’arte. E in arte” , conclude Rossi, “ci si può permettere quello che normalmente è vietato. Ai tempi un contadino non avrebbe mai osato mancare di rispetto al padrone ma, appena il sottoposto indossava le vesti del cantante di ottava, poteva permettersi di sbeffeggiare chiunque: dal proprietario della terra che lui lavorava all’oste che gli serviva vino di pessima qualità. L’ottava rima calata in certi contesti storici aveva una sua forza che mantiene ancor oggi soprattutto in località come quella in cui vivo, nella quale tutti si conoscono ed è facile ritrovarsi assieme per matrimoni, cene fra amici e altri momenti conviviali. In tali occasioni può saltare fuori l’ottava, magari non stilisticamente perfetta, ma sinceramente spontanea quindi efficace e giusta per il contesto”.
Prescindendo da questi componimenti estemporanei, che vivono lo spazio di un incontro, Stefano Rossi rivela anche una vena poetica che si rifà a personaggi noti delle sue parti, autentici miti del passato. Ad uno di essi, Nicola Gambetti, famoso guaritore di Badia Tedalda, vissuto fra 1800 e primo 1900, è dedicata la bella ottava con la quale concludiamo.
Badia Tedalda, 12 Maggio 2019. “Badia erbe e Magia”
Per le strade di Badia un passante incontra il famoso guaritore Nicola Gambetti…
In questo giorno alla metà di Maggio
Io me ne sto tranquillo per Badia
Ma incontro questo uomo che è un oltraggio
Alla sapienza e alla galanteria
Si spaccia per un guaritore saggio
Se penso bene con la testa mia
Io mi rivolgo a te caro Gambetti
Che vai in giro a fregare i poveretti
Son quelli come te che n’sono schietti
Che offendono la gente all’improvviso
Ti attaccano cha manco te l’aspetti
Ti guardo e non conosco questo viso
Può darsi che io ch’abbia i miei difetti
Ed a qualcuno non son tanto inviso
La mia passione è usare le sapienze
Per alleviare un po’ di sofferenze
Lo so che tu sei stato anche a Firenze
Tu sei partito da Monterotondo
E praticando le tue false scienze
Ormai sei conosciuto in mezzo mondo
Col tuo cavallo e quelle altre apparenze
Cappello a falde anziché rotondo
Ti piace fare la persona strana
Anche d’estate ti vesti di lana
In mezzo a tutta questa razza umana
Or mi ricordo quando ti ho incontrato
Perché ogni cura risultava vana
A quella donna che eri fidanzato
Aveva il mal di schiena la tua dama
E dunque a me ti sei raccomandato
Con un infuso di mia preparazione
Gli ho garantito piena guarigione
Lo dici pure brutto mascalzone
Che quando ritornavo a casa stanco
Certo mi dava gran preoccupazione
Trovar la donna col dolore al fianco
Ma peggiorò la mia disperazione
Quando mi apparve il tuo cavallo bianco
Perché tu quell’infuso maledetto
Glielo somministravi sopra al letto
Io curo tutti dal più poveretto
A quelli con le teste coronate
Perché fu il Re in persona no un cadetto
Che mi chiamò qualor non lo sappiate
Che la sua moglie come mi hanno detto
Doveva partorì da otto giornate
Misi il cappello in grembo alla Regina
E nacque il bimbo prima di mattina.
Questa storia non la sapevo prima
Può darsi che tu curi pure il re
Vittorio Emanuele alla Regina
Il seme gliel’avea messo da sé
Quando curasti la mia fidanzatina
Con un infuso forse anche due o tre
Veloce come il colpo di una lancia
Guarì la schiena e si gonfiò la pancia
Non sono Don Chisciotte della Mancia
Che combatteva coi mulini a vento
Guarire a te nn’è come un mal di pancia
Per te n’cè cura che abbia giovamento
E come il tor che carica e si lancia
Ti dico il mio verdetto in un momento
Posso guarir da febbre e da starnuti
Ma non guarisco il virus dei cornuti
Stefano Rossi